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Premessa

L’ ateismo comunista, tramite gli apparati di URSS, Cina e PCI, nel ’67, riuscì a portare in piazza masse di giovani, oppressi dalla routine quotidiana, che si mobilitarono (Movimento Studentesco) attratti dalla prospettiva dell’ azione e del protagonismo, a prescindere dai contenuti proposti. Ma diversi di loro i contenuti finirono per condividerli. Non fu spontaneismo perché dietro a tutto c’erano ideologi e attivisti comunisti, provenienti tra l’ altro dalle sezioni di S. Lorenzo adiacenti l’ Università. Le occupazioni delle facoltà, apparentemente decise in assemblee studentesche, in realtà erano decretate dal partito. L’intento era apertamente rivoluzionario in quanto mirava alla conquista del potere con la violenza e con l’affossamento dei valori cristiani. Quella della carriera fu un’ altra attrattiva per gli attivisti, ma solo alcuni capi della Contestazione ebbero successo in politica e all’ Università, per i più fu delusione e per altri rovina..

Dal ’62 Marchesini gestiva incontri culturali fra professori e studenti all’ Università della Sapienza. Erano dialoghi interdisciplinari aperti al dibattito (quella del dialogo era una “conditio sine qua non”) e spesso si protraevano con singoli studenti dopo l’ incontro; hanno anche dato luogo ad amicizie. Dapprima alla Casa dello Studente di via Cesare Dè Lollis, poi alla facoltà di Lettere e Filosofia, infine a Giurisprudenza. Finchè fu possibile.

Nel ‘ 67 a Marchesini si aggiunse Scafidi e insieme riuscirono a mandare avanti queste iniziative, persino in tempo di occupazioni, in situazioni sempre più rischiose, fino al ’76. Erano autorizzati in questa attività dai rettori Papi, Martino e D’ Avack e dall’ ORUR, Organismo Rappresentativo degli Studenti Romani (almeno finchè esistè), ma questo non contava niente per chi, come i comunisti, faceva solo una questione di forza.
L’ alternativa che essi ponevano era di stare con loro o contro, quindi si opposero con violenza ai nostri dibattiti.

Di fronte a questo “aut aut”, la maggior parte degli studenti smise di frequentare l’ Università anche per lunghi periodi o, peggio, decise di passare col Movimento Studentesco e con i suoi connessi di Potere Operaio e Lotta Continua. Solo in pochi cercammo di far valere i nostri diritti continuando a frequentare la Sapienza. Studenti (specie i “fuori sede”) che non potevano seguire le lezioni e fare gli esami), studenti e professori che non tolleravano le violenze dei comunisti. Fu così che inevitabilmente nacquero una serie di episodi avventurosi e qualcuno drammatico, che ebbero ripercussioni anche fuori dell’ Ateneo. L’ alternativa che essi ponevano  era di stare con loro o contro, quindi si opposero con violenza ai nostri dibattiti.

Di fronte a questo “aut aut”, la maggior parte degli studenti smise di frequentare l’ Università anche per lunghi periodi o, peggio, decise di passare col Movimento Studentesco e con i suoi connessi di Potere Operaio e Lotta Continua. Solo in pochi cercammo di far valere i nostri diritti continuando a frequentare la Sapienza. Studenti (specie i “fuori sede”) che non potevano seguire le lezioni e fare gli esami), studenti e professori che non tolleravano le violenze dei comunisti.
Fu così che inevitabilmente nacquero una serie di episodi avventurosi e qualcuno drammatico, che ebbero ripercussioni anche fuori dell’ Ateneo.


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Scontri  fuori dell’ Ateneo

Agli inizi delle ostilità, nel ’68, le occupazioni erano totali, cioè l’intera città universitaria della Sapienza era sbarrata e non si poteva entrare da nessuno degli accessi abituali: né da quello principale, né da quello di viale Regina Margherita, né da quello di via Cesare De Lollis.

Ogni giorno gli studenti si affollavano agli ingressi per vedere se potevano entrare e svolgere qualche attività a loro utile. Una mattina, all’ entrata principale, c’era una folla notevole impedita dai cancelli sbarrati con catene, e da attivisti, all’ interno, armati di bastoni e spranghe.
C’era rabbia fuori e voglia di sfondare sicchè a qualcuno, Scafidi compreso, venne l’idea di servirsi di un grosso palo della pubblicità, che era sul marciapiede, e che fu facile divellere, e con il quale colpire il cancello principale a mo’ di ariete.
Fu con meraviglia che lo si vide spalancare dopo essere stato più volte colpito. A nulla valse il nutrito lancio di sassi degli occupanti, la folla degli studenti irruppe all’interno mettendo in fuga gli attivisti rossi verso la facoltà di Fisica e la gradinata del Rettorato.

Ma all’ entusiasmo iniziale non fece seguito una volontà ulteriore di entrare nell’Ateneo e completare la sua liberazione, né le autorità si degnarono di approfittare della situazione favorevole per ripristinare la legalità.
Così, dopo qualche tempo, i liberanti cominciarono a ritirarsi e gli occupanti a riprendere le loro posizioni all’ingresso dell’ Università, anzi, essendo armati, colpirono quelli più esposti, fra cui lo stesso Scafidi che fu ferito alla fronte, ma non gravemente.

Un altro giorno una scena simile si svolse dalla parte di viale Regina Margherita e questa volta a rimetterci fu Marchesini che cercava di proteggere uno studente caduto a terra, su cui i comunisti stavano infierendo. Duilio ebbe l’avambraccio sinistro fratturato.

Comunque questi episodi servirono nel tempo a far sì che le autorità provvedessero per lo meno a rendere agibile l’ Ateneo nel suo insieme, così il problema delle occupazioni e del blocco delle attività si spostò alle singole facoltà. Questo permise il ripristino di qualche attività. Tale situazione si protrasse per anni.


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Liberazioni delle facoltà

Una volta resi liberi gli accessi dell’ Ateneo, il problema si spostò alle singole facoltà occupate, come quelle di Lettere e Fisica. Oltre ai cancelli chiusi delle facoltà, c’erano barricate di banchi e sedie, e naturalmente attivisti armati di spranghe e bastoni che ne impedivano l’ingresso.
Eppure ci furono delle situazioni favorevoli alla liberazione, come quelle dettate dallo stato d’animo degli studenti, indignati perché non potevano esercitare i loro diritti.
A volte si aggiungevano la presenza di forze consistenti di polizia o qualche apporto più massiccio di studenti di destra. Approfittando di una di queste situazioni favorevoli, una volta un folto gruppo di studenti provenienti da Legge si diresse verso Lettere per liberarla.
Sulle gradinate della facoltà ci furono tafferugli, e ne approfittò il vice questore di turno che lanciò la sua squadra di agenti e sfondò l’ ingresso, permettendo agli studenti di entrare dentro Lettere.
La facoltà rimase libera per tutto il giorno ma la notte venne nuovamente occupata. Poi fu la volta della facoltà di Fisica. Riusciti a superare gli ostacoli delle barricate e della reazione violenta degli occupanti, gli studenti si inoltrarono all’interno della facoltà.
Questa volta non ci fu nessun intervento di polizia e la liberazione fu ancora più breve perché gli studenti, dopo qualche ora, furono costretti a lasciare Fisica. Non era facile allo spontaneismo degli studenti liberi avere la meglio sull’ apparato quasi militare dei comunisti.
In conclusione, le autorità non volevano prendersi la responsabilità di normalizzare il funzionamento dell’ Ateneo perché non volevano mettersi contro il PCI e così la situazione di grave illegalità si protrasse per anni.


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Il “doposcuola” di Lettere

Il ’68 non fu solo un periodo di violenza fisica, ma anche morale.

Quell’ anno vennero portati alla facoltà di Lettere, e sistemati nelle aule del primo piano, un centinaio di ragazzini provenienti da una scuola elementare e media del quartiere S. Lorenzo.
Il preside aveva convinto i genitori a mandare i loro figli al “doposcuola” nell’ Università, durante le ore pomeridiane, in pieno clima di occupazioni.

A capo dell’ iniziativa c’erano due assistenti della facoltà di Lettere. In realtà si trattava di lezioni di indottrinamento ai temi e alla prassi del marxismo. L’intento era quello di porre questi giovanissimi contro lo Stato, contro la Chiesa e contro la Famiglia, secondo lo stile comunista bolscevico.
Si proiettavano filmati con le azioni di guerriglia di Valle Giulia, spesso li si portava in corteo per l’ Università e venivano persino fatti assistere agli accoppiamenti che gli attivisti consumavano con le compagne, sui prati adiacenti la facoltà di Lettere.

Le nostre denuncie al Rettore e al Questore ottennero che fossero lasciate aperte le porte delle aule adibite a “doposcuola”; ciò permise a noi e a qualche agente di controllare, ma non riuscimmo a far cessare il fenomeno che si concluse solo al termine dell’ anno scolastico.
Dopo qualche tempo il vice rettore professor Cimmino ci fece chiamare per ringraziarci di quanto avevamo fatto a favore della dignità dell’ Ateneo.

Questo del “dopo scuola” è un fatto significativo di come il Sessantotto avesse anche l’ intento di scristianizzare la società, così come continuò a fare in Parlamento con i decreti legge su divorzio, aborto, gay ed eutanasia.

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Le scritte e la lapide

Una sera Sandro e Aurelio, invece di uscire dalla facoltà di Lettere, si sono nascosti sotto la cattedra di un’ aula, così i bidelli, ignari, li hanno chiusi dentro la facoltà.

Muniti di varie bombolette e di torce elettriche hanno riempito i muri di tutti i piani con scritte filosofiche e politiche tipo “W San Tommaso d’ Aquino”, “W Sant’ Agostino”, “ W Gentile”, “W la Metafisica”, e altre ancora.
Dopo un paio d’ore di lavoro si sono recati al piano terreno, hanno aperto una finestra e calato una corda verso l’esterno. Evitando, giusto in tempo, un vigilante, si sono calati a terra e hanno raggiunto l’uscita di Via Cesare De Lollis, scavalcando il cancello.
Il giorno dopo i comunisti si accorgono dello smacco, non solo murale ma anche ideologico, operato nella facoltà, ne percepiscono il colpo più che se fosse esplosa una bomba, indicono una tumultuosa assemblea e organizzano un corteo di “vigilanza antifascista” per l’ Università, mettendo in mostra le bombolette e la corda “cause” di tanto crimine.
Quello delle scritte dentro la facoltà di Lettere era il massimo di rivalsa che si poteva avere di fronte allo strapotere violento dei rossi.

Un’altra sera Sandro e Antonio, verso l’ora di chiusura della facoltà di Lettere, quando c’era poca gente in giro, salgono i gradini della facoltà portando un grosso cacciavite e si dirigono verso la lapide affissa alla destra dell’ ingresso.
Si trattava di una lapide menzognera e odiosa che incolpava “i fascisti” della morte dello studente Paolo Rossi, caduto dal pianerottolo della facoltà, e il cui caso i magistrati avevano archiviato come incidente casuale.
Facendo leva sul muro, riescono ad asportare la lapide che portano dietro la facoltà e che fanno a pezzi. Pensavamo che questo bastasse a far cessare l’odiosa accusa, ma dopo qualche tempo i rossi hanno rimesso a tutti i costi una nuova lapide simile alla precedente.

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La facoltà di Giurisprudenza

Attraversato il cancello d’ingresso alla Sapienza, ci sbrigavamo a percorrere il tratto che conduce alla facoltà di Legge, dove finalmente potevamo stare tranquilli.
Qui non c’erano occupazioni né i fenomeni ad esse connessi. Qui trovavamo i nostri amici Giangi, Biagio, Mario, Ivana, Mirella, Aurelio e naturalmente Sandro e Antonio, che pur essendo studenti di Filosofia, spesso stavano a Legge.
Del resto così facevano altri studenti, che provenivano da altre facoltà e che non sopportavano il clima di intimidazione ivi esistente. Si parlava molto, ci si interessava di esami e di vicende politiche; a volte, anche delle vicende personali. Insomma c’era un clima di affiatamento.

I professori vedevano di buon occhio quel raggruppamento perché lo consideravano una garanzia al regolare svolgimento della didattica. Il professor Auriti si faceva un dovere di fermarsi con noi a parlare. Insomma Legge era divenuta un vessillo di libertà nel caos dell’ Ateneo.
Persino il vice questore Mazzatosta, dirigente del commissariato interno, si compiaceva di fermarsi a parlare con quel gruppo; era cattolico e doveva soffrirsi le situazioni violente e illegali esistenti nelle altre facoltà.
Diventammo amici, e lui e i suoi agenti ci tirarono fuori dai guai in più di un’ occasione. Naturalmente stavamo all’erta, con lo sguardo sempre attento a quanto succedeva fuori della facoltà di Legge.
Qualche volta ci trovammo a doverla abbandonare precipitosamente per la presenza di qualche corteo minaccioso che veniva verso di noi. La nostra uscita di sicurezza era un passaggio che da Legge portava alla contigua facoltà di Scienze Politiche.
Ma una volta questo allontanarci non fu possibile e le conseguenze furono pesanti.


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Assalto a Giurisprudenza

Quel giorno, con una ventina di studenti di destra stavamo alla facoltà di Legge, che era l’unico rifugio per chi non fosse di sinistra; rifugio, si fa per dire. Fuori c’era un’atmosfera tesa, con cortei che giravano per l’Università gridando a squarciagola.
A un certo punto due cortei, uno proveniente dalla facoltà di Fisica e l’altro da Lettere, si mossero verso Legge. Apparve subito che la situazione era pericolosa perché i pochi agenti del Commissariato interno all’ Università non potevano fare molto.
Chiudemmo le porte di Legge sperando di tener fuori l’enorme corteo di manifestanti ai piedi della facoltà, senza farli entrare; invece cominciarono a salire e irruppero dentro. Erano in preda a violenta isteria e si scagliarono contro il gruppetto di destra che altra scelta non ebbe se non quella di retrocedere e salire verso i piani superiori dell’ edificio, finchè non trovò altro che la porta chiusa delle terrazze.

I comunisti si avventarono contro i malcapitati indifesi, colpendoli con spranghe, caschi e bastoni. Ebbe la peggio Scafidi che era in posizione più esposta, e ben altre conseguenze ne sarebbero derivate se due agenti di P.S. non si fossero fatti avanti, coraggiosamente, impugnando le pistole. A stento riuscirono a portar fuori gli studenti di destra mentre Scafidi veniva messo su una camionetta per il Pronto Soccorso del Policlinico.
Marchesini, rivoltosi ai comunisti, gridò “Vigliacchi, noi in venti, voi in mille”. Tentarono persino di ribaltare la camionetta tanto erano fuori di sé.
Al Policlinico a Scafidi fu diagnosticata la commozione cerebrale, a causa delle ferite alla testa, e fu indicata una permanenza di dieci giorni.
Passò la notte fra vomiti e capogiri e la mattina si svegliò al canto di “bandiera rossa”, che gli infermieri comunisti del locale Collettivo gli cantavano in segno di sfregio.
Si decise di farlo uscire quanto prima, sottoscrivendo l’apposita richiesta di dimissione dall’ Ospedale e così, dopo due giorni, tornò a casa per continuare lì la degenza.
Ma prima dell’ uscita, Serge e un folto gruppo di giovani di Civiltà Cristiana lo vennero a trovare all’ Ospedale dichiarando l’intenzione di mettere tutto sotto sopra se ci fossero state ancora le vili intimidazioni da parte del personale ospedaliero nei confronti del ferito.

 

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Il FUAN

Il FUAN, Federazione Universitaria di Azione Nazionale, aveva la sede in via Pavia nei pressi dell’ Università.
Era l’unico gruppo universitario, invero sparuto, che cercava di resistere al Movimento Studentesco, garantendo una certa presenza libera alla facoltà di Giurisprudenza. Ci siamo trovati con loro in diversi pericoli e ci siamo affiatati.
Ci venne l’idea di dar loro una formazione cristiana e così organizzammo un corso sul vangelo di S. Giovanni nella loro sede (pericolosa perché ogni tanto oggetto di attentati, tanto che all’ interno c’era un enorme buco provocato da un esplosivo).

Giangi e Biagio, due capi, furono contenti dell’ iniziativa e così per qualche mese andammo a via Pavia. Scegliemmo il Vangelo di S. Giovanni perché mostrava la tensione crescente attorno a Gesù fino al momento della Croce, e quindi ci appariva il più adatto ai nostri uditori.

Il corso ebbe successo tant’è che due di loro, alla fine, decisero di cresimarsi. Una prova che la dottrina, la morale e l’ azione stanno bene insieme.

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Inaugurazione dell’ Anno Accademico

Erano anni che non si faceva l’inaugurazione dell’ Anno Accademico perchè il Movimento Studentesco lo impediva.
Quell’ anno decidemmo di farla noi, studenti di destra, che stanziavamo alla facoltà di Legge; era una questione di principio e poi aveva un valore simbolico. Mettemmo qualche manifesto, e il giorno e all’ora stabilita ci recammo in cima alla scalinata del Rettorato. Eravamo con Giangi, Mario, Aurelio, Mirella e un’altra ventina, e Duilio cominciò a dire qualche parola di circostanza.

Dopo qualche minuto un minaccioso corteo di centinaia di comunisti cominciò ad avvicinarsi alla scalinata lanciando insulti e minacce. Per un pò ci fu un fronteggiarci ma poi il corteo cominciò a salire minaccioso le scale, con il chiaro intento di aggredirci.
La situazione era grave: ci salvò il coraggio di Ivana che, assieme ad altri, dalla facoltà di Legge, stava assistendo a quanto accadeva sulla gradinata del Rettorato. Si lanciò coraggiosamente avanti urlando “Non possiamo lasciarli a farsi massacrare”; e così si portò appresso alcune decine di studenti di Legge.
Il sopraggiungere di quei rinforzi convinse i comunisti a desistere e a lasciarci in pace. Anche noi smettemmo la manifestazione, ma potemmo ben dire che per quell’ anno l’inaugurazione dell’ Anno Accademico c’era stata.

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Alcuni professori

Ci furono professori che ebbero il coraggio e la dignità di opporsi alle contestazioni. Abbiamo in mente il professor Cotta, Filosofia del Diritto, che dopo essere stato impedito a svolgere una lezione, si ferma sulla gradinata di Legge e denuncia pubblicamente il sopruso.
Il professore Fichera, Analisi matematica, che impedito a svolgere la lezione, lui matematico di fama mondiale, paragona i metodi del Movimento Studentesco a quelli nazisti e fascisti e poi a stento esce dall’ aula.
In quella circostanza Marchesini, uscito Fichera, si portò sulla cattedra dicendo che la lezione si sarebbe ugualmente svolta, sul tema della libertà; i più se ne andarono vociando, ma qualcuno rimase ad ascoltare.
Il professor Cattaneo, di Meccanica Razionale, ci salvò da gravi conseguenze: avendo visto un attivista che con una lunga lama ci minacciava ai piedi della facoltà di Lettere, si mise coraggiosamente avanti, urlando contro il violento e costringendolo ad andarsene.

E poi ci fu Paratore, professore di latino a Lettere. Quel giorno c’ era l’esame di latino scritto, dal latino all’ italiano, e l’ aula prima era piena di studenti che dovevano svolgere la prova. Si chiusero le porte e cominciò l’esame.
Ma dopo meno di mezz’ora si riaprirono tumultuosamente: si vide un agitarsi di persone che vociavano minacciosi attorno alla cattedra, dove sedeva impassibile Paratore.

L’ intervento di alcuni agenti, cui demmo una mano, servì a mettere in salvo Paratore che rischiava il linciaggio. Era successo che man mano che traducevano, gli studenti si accorgevano che quel brano non era tratto da qualche autore latino classico, ma dal “ libro rosso” di Mao, in cui il grande capo diceva ai giovani che dovevano obbedire ai loro superiori ed essere docili, ordinati e disciplinati, insomma tutto l’ opposto di quello che erano loro.

“Summa iniuria”, non potevano subire un simile affronto, perciò esplosero in isterismi, rifiutando di fare la prova e volgendosi minacciosi contro il professore. A memoria nostra fu l’ultima volta che la prova scritta di latino si svolse a Lettere.
Ricordiamo con simpatia anche l’iniziativa di Calogero, Filosofia, che, dopo le sue lezioni, lasciava la parola al pubblico per cimentarsi in quegli argomenti filosofici; anche noi partecipavamo, non parendoci vero che dentro l’ Università potesse avere luogo una situazione di dialogo culturale.
Casi di professori degni di ogni rispetto. Ma casi isolati.

 

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La Casa dello Studente

Eravamo andati assieme ad Alfredo a pranzare alla Casa dello Studente, in via Cesare De Lollis; invero avevamo smesso di frequentarla da un po’ di tempo perchè la ritenevamo pericolosa, anche se in passato, prima delle occupazioni, Duilio soleva frequentarla abitualmente, e anzi aveva allacciato amicizia con diversi residenti, con i quali spesso si intratteneva a parlare.
C’erano studenti in gamba, fuori sede, che dovevano tenere una condotta e uno sforzo notevoli per mantenere lo standard degli esami che l’ Amministrazione imponeva, pena la perdita della permanenza alla Casa con borsa di studio.
Anche il nostro amico Antonio risiedeva alla Casa dello Studente (divenne poi ordinario di filosofia) ma le condizioni di vita erano ormai divenute pesanti a causa delle occupazioni. Non volendo deludere Alfredo, che ci aveva invitato a pranzo alla Casa dello Studente, ci siamo azzardati ad andarci.
Già durante il primo piatto, un via vai pericoloso di attivisti si verificò attorno al nostro tavolo; facendoci forza continuammo il pranzo ma, arrivati al secondo piatto, decidemmo di smettere e avviarci verso l’uscita.
Uscimmo tra due ali di studenti minacciosi che urlavano, insultavano e sputavano. Come Dio volle guadagnammo la strada contenti di aver scampato il pericolo e, a questo punto, Alfredo ci lasciò stupefatti perché dalla tasca tirò fuori una mela dicendo “Io ho il diritto di completare il pranzo”.
Un’ altra volta, passando in macchina davanti alla Casa dello Studente, trovammo traffico e stavamo fermi: ci videro e stavano per aggredirci quando, finalmente, il conducente, con perizia, riuscì a superare le altre macchine e ad allontanarsi. Giusto in tempo. Naturalmente non mettemmo più piede alla Casa dello Studente nè passammo più per via Cesare De Lollis.


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Facezie e  amicizie

Nella bolgia delle occupazioni c’erano anche situazioni simpatiche e intelligenti. Gli stessi contestatori, a volte, erano costretti a lasciar da parte la ragion politica e dar sfogo a quella umana.
Una volta gli occupanti ci videro comparire a Fisica, in una loro assemblea, e tutto potevano permettere meno che vi partecipassimo stante anche il tono di complotto che quella riunione aveva, ma invece di buttarci fuori con la forza, democraticamente votarono che non potevamo partecipare.
Una decisione faceta ma era già qualcosa di diverso dai sistemi beceri cui erano abituati, e noi l’assecondammo. Una volta andando all’ aula sesta di Lettere, dove i rossi avevano un loro covo, di primo pomeriggio, quando non c’era nessuno, portammo via un grosso rotolo di carta che usavano per i loro manifesti e lo gettammo in un tombino.
Si accorsero che eravamo stati noi ma si limitarono a mettere un cartellone umoristico. Ci furono anche rapporti che dall’ ostilità si tramutarono in amicizia, come quello con Vito che, in carcere con noi per una rissa, finì col diventarci amico perché condivideva lo stesso braccio, e trovò in noi un aiuto provvidenziale essendo lui decisamente imbranato per quegli ambienti.

La rissa con Vito avvenne perché lo conoscevamo solo di vista, dentro l’ Università, e lui era uno tra i più aggressivi nei nostri confronti, e inoltre l’ anonimato favoriva tale atteggiamento, per cui, quando lo incontrammo fuori dell’ Ateneo, ci provammo a chiedere lo scambio delle generalità, ma Vito reagì e così finimmo tutti e tre dentro.

Oppure l’ amicizia con Mario, capetto di Potere Operaio, che incontravamo spesso nei pressi di Galleria Colonna; il fatto è che stava con un’ anziana signora, sua madre, chiaramente affetta da grave malattia.
All’ inizio ci guardavamo in cagnesco ma un giorno ci scambiammo qualche parola sul fatto che entrambi accudivamo congiunti malati,
Duilio sua zia e Mario la madre. Finimmo per diventare amici. Pur essendo avversari avevamo popolarità fra i contestatori che cercarono persino di portarci dalla loro parte ma, sebbene stimassimo l’intento, non potemmo accettare la proposta.

 

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Piazza della Cancelleria

Altri incontri e scontri avvennero fuori della Sapienza, come sue inevitabili appendici. Stavamo a cena, in una dozzina, in un locale di piazza della Cancelleria, all’ aperto.
Avevamo lavorato fino a mezzanotte a sistemare la cappella di “Civiltà Cristiana” in Corso Vittorio Emanuele. Avevamo ormai finito di cenare e ci eravamo alzati per andare a prendere il nostro Ford Transit parcheggiato di fronte al restaurant.
All’ improvviso dal fondo della piazza, in direzione Campo dè Fiori, si sente l’urlo “Morte a Marchesini” e si intravvede nel buio una folla minacciosa di persone, più di cento, cui fa seguito un fitto lancio di sassi e bottiglie.
Fuggi fuggi generale, compresi gli altri avventori del locale. Il gruppo di Civiltà Cristiana, nella precipitazione, si disperde e Marchesini e altri tre imboccano corso Vittorio Emanuele in direzione della chiesa di S. Andrea della Valle, Scafidi si era portato appresso una sedia presa dal locale, inutilmente ostacolato dal cameriere.
Non sa nemmeno lui perché fà questo. Arrivati davanti alla chiesa, si rendono conto dell’ assenza degli altri e preoccupati si fermano; spaccano la sedia e con quattro legni tornano indietro verso piazza della Cancelleria.
Lì vedono il pulmino rovesciato dagli attivisti rossi e un gran vociare minaccioso. Facendosi coraggio Marchesini arringa la folla, dichiarando pubblicamente la violenza e la codardia dell’ episodio. I rossi, che si erano sfogati rovesciando il pulmino e prendendolo a bastonate e a calci, al grido di pulmino fascista, rimangono sorpresi e ne approfitta Luigi che, non essendo potuto scappare, era rimasto al restaurant, anzi si era messo a gridare pure lui “Morte a Marchesini”; tolto il legno al fratello Mario comincia a colpire un malcapitato fra i più facinorosi.

Il clima ridiventa caldo, quando l’urlo delle sirene del 113 e il loro arrivo sblocca la situazione. A questo punto protagonista diventa l’ agente Merenda, del primo distretto di P.S, che prima punta la pistola contro Marchesini, che era più in vista degli altri, poi, alle spiegazioni di questi, cambia obiettivo e infila a spintoni sei, sette attivisti nelle volanti della polizia, portandoli al Commissariato di piazza del Collegio Romano.
Un’ azione da professionista. Ci fu un processo per direttissima nei confronti degli aggressori, ma dei giudici comunisti li lasciarono subito in libertà, come era frequente in quei tempi.
Anzi, qualche tempo dopo, Merenda fu convocato dal questore Parlato che, dopo averlo elogiato definendolo il suo miglior agente, gli disse che doveva lasciare Roma perché ritenuto pericoloso dai deputati comunisti alla loro causa.
L’ alternativa era o che lui, il questore, lasciasse Roma, oppure andasse via l’ agente. A Merenda fu data solo la libertà di scegliere dove voleva andare e così se ne tornò a Catania.
Il giorno successivo all’ aggressione, rivedendoci fra noi, ci siamo raccontati le varie peripezie subite, e in linea di massima ne eravamo usciti fuori bene, facendo leva su prontezza e una buona dose di fortuna. Sandro e Franco, dopo una rovinosa caduta, si erano alzati prontamente ed erano riusciti a dileguarsi, Franco Antico, segretario di Civiltà Cristiana, si era trovato accanto al pulmino mentre veniva rovesciato e aveva mantenuto calma e indifferenza, un po’ più agitato invece l’ attore Checco Durante, che anche lui si era trovato presente, inconsapevole di tutto.

Fra i presenti in quella circostanza, Giorgio divenne poi questore e Mario generale della Nato., L’unico a rimetterci a rimetterci fu il “pulmino fascista”.

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L'onorevole

Con un gruppetto di Civiltà Cristiana stavamo seduti al bar sito di fronte alla chiesa del Gesù, angolo corso Vittorio Emanuele.
All’interno, al bancone, c’era Giorgio Amendola che prendeva un caffè e ascoltava i discorsi, a voce alta, del gruppo seduto fuori.
Non lì apprezzò ma tacque e mandò a chiamare i “gorilla” della vicina via Botteghe Oscure. Scontro.
Qualche cazzotto da una parte e dall’altra. E’ finita alla pari, anche per il nostro tempestivo rientro nella sede di Civiltà Cristiana proprio di fronte al bar.
Denunciammo l’onorevole ma qualche magistrato compiacente non fece mai arrivare a conclusione la denuncia.
Ci fu tensione anche in altre circostanze, e non si sa se avevamo più paura noi della vicinanza di Botteghe Oscure o quelli del PCI della vicinanza di Civiltà Cristiana.
Più che il fatto di forza giocava quello psicologico.

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L’ avvocato e i processi

L’ avvocato Francesco Falvo D’ Urso fu per noi amico e angelo custode che ci protesse nei processi, in cui inevitabilmente ci trovammo coinvolti.
Tra parti lese, imputati e testimoni, furono decine le volte che ci recammo a piazzale Clodio. Ci difese validamente e gratuitamente e contribuì a tenerci liberi, non potè evitare i nostri arresti per flagranza di reato ma nelle fasi di dibattimento ebbe sempre la meglio.
Di giudici ne trovammo di tutti i colori, da quelli che mostrarono obiettività e persino simpatia per noi, a quelli che ci colpirono come poterono, per pregiudizio ideologico.
Una volta trovammo un pretore che prescrisse la nostra denuncia nei confronti di una persona perché non risultava esistente nel luogo indicato, e poi, qualche mese dopo, pretendeva di mandare avanti la contro denuncia di questi nei nostri confronti.
La persona era esistente e non esistente al contempo, a seconda che noi fossimo imputati o parti lese. Alla fine la situazione giudiziaria si risolse perché il procedimento passò a un altro pretore, a seguito di una nostra protesta presso il giudice dirigente la Pretura.
Spesso ci siamo imbattuti in gruppi pericolosi di attivisti, presenti in Tribunale per processi a carico dei loro compagni, e convocati in aule vicine o addirittura nella stessa nostra.
Qualche volta i carabinieri dovettero mettersi in mezzo per evitare l’accerchiamento e conseguenze peggiori.
Anche all’ uscita dal palazzo del Tribunale, dovevamo guardarci alle spalle perché non ci seguissero e aggredissero, quando ormai eravamo a distanza dalle forze dell’ ordine.
Anche la Magistratura, come la Chiesa e l’ Università, è una istituzione vitale per lo Stato; la sua imparzialità e la sua efficienza sono di estrema importanza. L’indipendenza dei giudici dalla politica è indispensabile per uno Stato libero.

 

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Conclusioni

L’ Università ha bisogno di libertà, vera e non fittizia. È necessario che i cattolici e la destra possano esprimere liberamente il loro pensiero senza incorrere nelle contestazioni violente della sinistra. Nemmeno i papi Benedetto XVI e Francesco sono potuti andare alla Sapienza e parlare liberamente. A Benedetto XVI è stato impedito di tenere una “lectio magistralis” all’ Aula Magna, malgrado aver avuto l’ invito del rettore. Una volta distribuimmo dentro l’ Ateneo un volantino, in cui si auspicava l’ introduzione della facoltà di Teologia, alla pari con quella di Filosofia, suscitando apprensione in qualche professore di Filosofia; naturalmente non si pretende tanto, ma sì il libero confronto. Inoltre è necessario che si svolga il dialogo interdisciplinare fra le scienze per una visione universale della verità; occorre altresì che la verità passi dai docenti ai discenti non solo tecnicamente, ma con tutto l’ apporto umano e l’ esperienza di chi ha raggiunto posizioni di eminenza. Quindi non solo lezioni ma dialoghi e dibattiti. Se questo avverrà, l’ Università, organo vitale dello Stato, come la Chiesa, potrà veramente svolgere la sua funzione di cultura e civiltà.

Roma settembre 2018   
 Revisione 1 il  12/10/2018

Duilio Marchesini e Giancarlo Scafidi