L'AMBIENTE STORICO NELLE LETTERE DI SAN PAOLO APOSTOLO
di Lino Bertuzzi - 15/10/2014
Prologo - Le lettere di San Paolo - Corinzi - Colossesi - Efesini - Filèmone -Filippesi - Gàlati - Romani
Tessalonicesi-Timòteo -Tito - Conclusione

 

PROLOGO

Il Nuovo Testamento è la raccolta dei ventisette scritti, tutti in lingua greca, che compongono la seconda parte della Bibbia cristiana. Si tratta di ventuno lettere, quattro vangeli, un libro di narrazione storiografica con evidente intento teologico (gli Atti degli Apostoli) e un testo apocalittico che si presenta come grandiosa visione profetica (l’Apocalisse). Questi scritti, diversi per genere letterario ed estensione, testimoniano la fede in Gesù di Nazaret, messia e Figlio di Dio, inviato escatologico di Dio per la salvezza dell’umanità, Parola definitiva di Dio all’uomo.

Per i dettagli sul nuovo testamento possiamo leggere il testo CEI "La composizione del Nuovo Testamento e la formazione del canone (clicca)", dal quale traggo queste poche note, integrandole con i collegamenti ai testi delle 'lettere'.San Paolo
In questo articolo, cerco di inquadrare l'ambiente storico dal testo delle lettere per paragonarlo con quello di oggi, e anche aggiungere qualcosa al minimo contributo che ho creduto di aver dato esaminando gli atti degli apostoli con questo stesso intendimento..Qui fornisco al lettore l'elenco delle lettere, con i reltivi collegamenti per la lettura dei testi. Parlando delle lettere esaminiamole nell'ordine in cui sono state presumibilmente scritte:

1) Il gruppo di scritti che fu raccolto per primo è quello delle lettere paoline.È possibile che la formazione di un corpus paolino sia iniziata mentre Paolo era ancora vivente. Per il mio scopo non considero le discussioni sulle attribuzioni delle lettere e le lettere apocrife, ma mi ridferisco solo ai seguenti testi attualmente canonici. Ecco la lista. Per leggere la singola lettera cliccare sul titolo:

2) I quattro Vangeli, composti nella seconda metà del I secolo costituiscono la seconda raccolta di scritti, che divenne poi fondamentale nel canone.

3) Le lettere di SAN PIETRO Apostolo, che sono probabilmente successive alle 13 lettere di San Paolo e contemporanee alla lettera di San Giovanni Apostolo

4) Lettera di San Giacomo Apostolo: Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute.

5) Le lettere di San Giovanni Apostolo.

  • Prima lettera::quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi
  • Seconda lettera:: io, il presbitero, alla Signora eletta e ai suoi figli che amo nella verità
  • Terza lettera: io, il presbitero, al carissimo Gaio, che amo nella verità

5)  Lettera di Giuda:Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo, agli eletti che vivono nell'amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo.

COME GIÀ HO DETTO NEL TRATTARE DEGLI 'ATTI DEGLI APOSTOLI', ANCHE PER LE 'LETTERE' CHE HO SOPRA ELENCATE NON DESIDERO QUI FARE UN RIASSUNTO, MA MI PROPONGO DI DARE UN PICCOLO CONTRIBUTO ALLA VERITÀ SULL'AMBIENTE STORICO NEL QUALE SI MUOVEVANO ED AGIVANO I LORO AUTORI.

LE LETTERE DI SAN PAOLO NELL'AMBIENTE DELLE ORIGINI

Bisogna notare dal punto di vista storico che i Romani non sono quasi mai coinvolti nelle lotte tra ebrei. L'amministrazione romana interviene il meno possibile nelle questioni religiose e interne dei popoli che 'sottomette' (governandoli direttamente o facendone dei protettorati governati da re e potentati locali). Del grande inquisitore e persecutore Saulo poi miracolato e convertito, possiamo leggere anche di come (il futuro San Paolo) potesse viaggiare alacremente e in modo relativamente rapido per tutta la Siria per incarico del Sinedrio per scovare gli eretici, e di come fu fulminato sulla via che conduce a Damasco (Atti 27, 1-9; 28, 10-19; 29, 19-25). Palestina Oltre ad essere un fariseo potente perché presumibilmente ricco, dal padre imprenditore di un'industria di produzione di tende per l'esercito, aveva ereditato per meriti di famiglia anche la cittadinanza romana. La facilità di viaggiare era grande, date le sue disponibilità finanziarie e la sua qualifica, anche se egli poi mise cristianamente a disposizione le ricchezze in favore dei fratelli cristiani.
Prima della conversione Paolo di Tarso era attivissimo nella persecuzione dei giudei convertiti (#) che aveva in odio, e aveva anche partecipato di persona alla lapidazione del protomartire S. Stefano. Dopo la conversione, da persecutore divenuto perseguitato, ritorna a Gerusalemme. Da lì i 'fratelli' lo fanno partire per Tarso, per sfuggire ai Giudei. Se vediamo l'avanti e indietro di San Paolo e dei suoi co-evangelizzatori per tutto l'impero, rimaniamo stupiti: la possibilità e la facilità dei viaggi è resa evidente dalla piana semplicità dei racconti degli Atti. A proposito di Tarso: nella geografia antica, la Cilicia formava un distretto sulla costa sudorientale dell'Asia Minore, a nord di Cipro; prima di diventare una provincia romana la Cilicia era uno dei covi di pirati che ostacolavano i commerci, e che furono sradicati da Pompeo Magno nella sua famosa guerra contro i pirati del mediterraneo.

(#) Saulo "devastava la Chiesa; entrava nelle case, trascinava via donne e uomini e li faceva mettere in prigione."(Atti,22.3)

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LE DUE LUNGHE LETTERE AI CORINZI

L'ampiezza della corrispondenza epistolare tra Paolo e i Corinzi si deve al fatto ch'era stato proprio lui ad aver fondato in questa città la prima comunità cristiana, di cui andava molto fiero, ma che dal punto di vista dei 'mores' non gli dava le soddisfazioni che sui sarebbe aspettato. Se leggiamo queste lettere ci rendiamo conto che esse costituiscono sostanzialmente l'esortazione ad abbandonare uno stile di vita per nulla consono a persone che proclamano di essere cristiani. Fin dall'antichità preromana Corinto era infatti stata una città di costumi assai licenziosi, molto prospera e ricca.
Dato che la citta era stata rasa al suolo dal console Lucio Mummio, nel 146 a.C., nel 44 a.C.Giulio Cesare ne ordinò la ricostruzione chiamando a ripopolarla molti coloni italici, sia veterani che liberti, giudicati con disprezzo dai greci.
Nel 27 a.C. l'imperatore Ottaviano la fece capitale della nuova provincia senatoriale dell'Acaia, promettendole di risplendere come un tempo. Gli schiavi erano numerosissimi, gli ebrei avevano una loro importante sinagoga e l'elemento greco era meno presente, in rapporto al mezzo milone di abitanti, rispetto ad altre grandi città. Corinto era la meno greca delle città greche.

Paolo giunse a Corinto alla fine del suo secondo viaggio, tra la primavera e l'estate del 51 d.C. e quando era solo e privo di mezzi di sussistenza, provenendo. da Atene da cui s'era volontariamente allontanato senza esserne stato scacciato.
A Corinto aveva incontrato due coniugi ebrei, Aquila e Priscilla, a quel tempo già cristiani, appena profughi da Roma a causa dell'editto d'espulsione di tutti gli ebrei emanato dall'imperatore Claudio. Paolo faceva il loro stesso mestiere di fabbricante di tende, e ottenne ospitalità lavorando per mantenersi. Appena sistemato economicamente, iniziò a predicare, partendo ovviamente dalla sinagoga. Fu raggiunto, subito da Sila e Timoteo, che si trovavano in Macedonia, che anch'essi lo aiutavano finanziariamente. Poiché i giudei, in genere, rifiutavano la resurrezione del messia figlio di Dio, crocifisso per redimere l'umanità, iniziò a frequentare un certo Tizio Giusto (pagano affiliato al giudaismo), la cui casa era attigua alla sinagoga. Nel frattempo s'era convertito anche Crispo, un archisinagogo, con tutta la famiglia.
Paolo in diciotto mesi di intenso lavoro non ebbe tutto il successo che sperava. I Corinzi infatti erano abituati a uno stile di vita tutt'altro che morigerato. Impressionante è l'elenco che San Paolo stesso delinea: fornicazione, idolatria, adulterio, ogni specie di vizio sessuale, ladrocinio, cupidigia, ubriachezza, oltraggio ecc.

I Giudei della città, infastiditi dal suo proselitismo, aiutati da altre persone pagane lo denunciarono al proconsole dell'Acaia Gallione, fratello del filosofo Seneca. L'accusa era quella secondo cui egli, nelle città pagane, predicava una religione monoteista che minava le basi religiose dell'impero (anche gli ebrei ovviamente erano monoteisti, ma era loro interdetto il proselitismo). Il proconsole cacciò i giudei dal tribunale, in quanto, secondo lui, si trattava di questioni meramente religiose, nelle quali non voleva entrare.
Gallione conosceva bene gli ebrei e fece finta di nulla quando vide, in quel frangente, che alcuni greci stavano malmenando, per ritorsione, un tale Sostene, responsabile del procedimento giudiziario a carico di Paolo.
Nei momenti a lui più sfavorevoli, San Paolo era abilissimo nel mettere gli uni contro gli altri. Infatti ne approfittò subito per continuare a predicare per ancora molti giorni, finché, dopo aver sciolto un voto col rito ebraico del nazireato (Num 6,2-21), salpò, agli inizi del 53, con Aquila e Priscilla, dirigendosi verso le coste della Siria.

I Viaggi di San Paolo

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LA LETTERA AI COLOSSESI

La comunità cristiana di Colosso, città della Frigia (nell'odierna Turchia) sulla riva sinistra del Lico, era stata fondata, intorno al 54-55, da un certo Epafra, il quale era stato istruito da Paolo a Efeso, mentre parlava o nella sinagoga o nella scuola di Tiranno (cfr At 19,1-8; 19,9), e aveva ricevuto da lui il titolo di "ministro di Cristo" (1,7).
La comunità, come di regola nelle comunità paoline, doveva essere composta prevalentemente di pagani convertiti. Epafra era in stretti rapporti con Paolo che ne parla in maniera autorevole, come se la comunità fosse stata una sua creatura.
Il motivo della lettera dipese da una relazione che Epafra fece a Paolo, prigioniero, sullo stato di quella comunità neo-convertita. Evidentemente sentiva di non avere sufficiente autorevolezza per risolvere i problemi riscontrati.
Di che problemi si trattasse, però, non si sa con precisione. Considerando che gli eretici doceti, come Valentino e Marcione, abusarono della lettera a sostegno delle proprie tesi, si può pensare che la questione fondamentale fosse di natura cristologica. Anche perché proprio in questa lettera S. Paolo si spinge a fare considerazioni altamente metafisiche, seppur espresse in forma molto sintetica, sulla figura di "Cristo-Capo", che è insieme "pienezza" (pleroma) della divinità, dell'umanità redenta e dell'intero universo.
È probabile che, dopo la morte di San Paolo, la comunità di Colosso sia passata sotto l'influsso dell'apostolo Giovanni, che era favorevole all'insurrezione anti-romana quindi politicamente era ostile a Paolo stesso.

Dal punto di vista storico si nota che gli Ebrei ortodossi continuavano l'opposizione senza quartiere alla nuova religione, specialmente nei casi di evangelizzazione rivolta agli ebrei, mentre i magistrati dello Stato erano soliti considerare le questioni religiose del tutto estranee alla loro sfera giurisdizionale, purché non ledessero le prerogative imperiali. Anche tra gli ebrei convertiti però continuava l'opposizione al governo di Roma, che poi portò alla distruzione di Gerusalemme e alla diaspora degli Ebrei, come Gesù Cristo aveva predetto.
Le discussioni e le dispute di carattere cristologico, e religioso in genere, presero sempre più vigore col nascere e col crescere delle comunità cristiane, e cosí pure le interpretazioni della scrittura, di modo che cominciarono le eresie che poi ebbero grande vigore nei secoli successivi, da quando il cristianesimo divenne religione dello Stato.
Ricordiamo che l'Imperatore Costantino, nella sua qualità di Pontifex intervenne e convocò a Nicea nel 325 un concilio per dirimere la questione fra cattolici ortodossi e ariani. Il Concilio iniziò il 20 Maggio 325 alla presenza di circa 220 vescovi, in larghissima maggioranza della parte orientale dell'Impero. Ormai l'Impero stava per finire. Dall'est spingevano i popoli seminomadi delle steppe e delle foreste, attirati dalla ricchezza e dallo splendore della cultura e della civiltà europea, della quale volevano entrare a fare parte.

Con lo sviluppo del cristianesimo inizia la decadenza dell'immenso Impero, smembrato e diviso, prima spartendo il comando (1 Augusto e 1 Cesare per l'occidente, 1 Augusto e 1 Cesare per l'Oriente) e poi suddiviso in due, e infine anche togliendo alla città di Roma il carattere di capitale e centro della politica. L'Impero oramai aveva fatto la sua parte per la civilizzazione e la romanizzazione dei popoli d'Europa e un nuovo ordine stava sopravvenendo.

Nota: Colosso (oggi Çürüsku) era una città della Frigia (nell'odierna Turchia) sulla riva sinistra del Lico, a sud-est di Laodicea, da cui distava circa 25 km. Fu proprio quest'ultima, fondata da Antioco III (261-246 a.C.), ad assorbirne quasi totalmente i commerci, ch'erano molto floridi a motivo della posizione strategica nell'area geografica che univa la metropoli Efeso all'Eufrate.Di questa comunità, tuttavia, non si saprà più nulla, se non che dalle sue rovine fu costruito, a 4 km di distanza, il villaggio Chonai (oggi Khonas).
Colosso venne evangelizzata, insieme a Laodicea, durante il triennio del terzo viaggio missionario che San Paolo dedicò alla regione turca che allora si chiamava "Asia" (cfr At 19,1-20,1). ma non fu da lui visitata personalmente. Infatti nella lettera è scritto che i cristiani di Colosso fino a quel momento non l'avevano mai visto (2,1). Che Paolo l'abbia visitata, tra la prima e la seconda prigionia, non è improbabile, visto che nella lettera a Timoteo dichiara d'essere stato a Mileto.

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LA LETTERA AGLI EFESINI

Alla comunità cristiana di Efeso, costituita prevalentemente da gentili San Paolo indirizza una catechesi completa ed esaustiva che esamina punto per punto i doveri di cristiani che intendono conservare l'unità con Gesú Cristo: inizia spiegando IL MINISTERO DELLA SALVEZZA E DELLA CHIESA ovvero Il piano divino della salvezza, con il trionfo e la supremazia di Gesú Cristo, la gratuità della salvezza nel Cristo, la necessità della riconciliazione dei Giudei e dei pagani fra di loro e con Dio; fa appello all'unità di vita in Cristo e detta le norme morali, pubbliche e private che servono per ottenerla; anche qui come nella lettera ai colossesi egli raccomanda: "quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi, come si addice a santi;lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità: cose tutte sconvenienti." 
Nella Morale domestica Paolo raccomanda il rispetto per tutti, i diritti e i doveri nel matrimonio e in famiglia, e nel lavoro ben fatto. San Paolo conclude l'esortazione alla lotta spirituale:

"Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della paceTenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anchel'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio.Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere. "

Leggendo questa lettera di San Paolo, come del resto da tutte le altre si capisce che in tutte le ricche e popolose città dell'Impero si viveva a quei tempi proprio come si vive oggi. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole: i problemi nelle società prospere e ricche sono sempre i soliti. Anche a quei tempi preoccupavano moltissimo la bassa natalità e la corruzione dei costumi.

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LETTERA A FILEMONE

Inizia con queste parole:"Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro caro collaboratore Filèmone, alla sorella Appia, ad Archippo nostro compagno d'armi e alla comunità che si raduna nella sua casa." Si tratta sostanzialmente una lettera di raccomandazione perché Filemone accolga di nuovo in casa uno schiavo convertito da San Paolo che era fuggito con lui.

"Se dunque tu mi consideri come amico, accoglilo come me stesso. [18]E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto."

Qui vorrei ancora rimarcare che il trattamento degli schiavi nel mondo romano non era di solito quello spietato che si vede rappresentato nei film 'peplum' americani. Sicuramente qualche padrone pazzo o sadico ci sarà stato, come del resto c'è sempre stato anche il Europa nell'era moderna, e come c'era sicuramente nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti e dovunque si importarono schiavi dall'Africa. A Roma gli schiavi avevano molto valore, dato dal fatto che svolgevano, quasi sempre senza compenso in denaro, gli stessi lavori delle persone libere. Anzi, gli schiavi più colti o intelligenti potevano arrivare ad avere un proprio patrimonio personale rilevante e possedere schiavi a loro volta.. A Roma tutto era regolato da un preciso 'corpus juris'.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA SCHIAVITÙ NEL MONDO GRECO-ROMANO di Francesca Reduzzi (CLICCA)

Differenze tra la schiavitù greca e romana
Nel mondo greco, lo  status giuridico dello schiavo non è definito in modo chiaro, sia per l’assenza di una classe di giuristi come quelli che operavano in Roma, sia per la presenza di differenti situazioni giuridiche di sottoposti, secondo le epoche e le regioni, e l’esistenza di situazioni di dipendenza intermedie tra schiavitù e libertà.
Nel mondo romano, al contrario, tutto appare più netto, almeno nel periodo di maggior espansione della manodopera servile (II secolo a.C.-II secolo d.C.). Il giurista Gaio, alla metà del II secolo d.C., nelle sue ‘Istituzioni’ parla, all’inizio del libro sugli «status personarum», di una summa divisio, la più importante distinzione: «tutti gli uomini sono liberi o schiavi ».

Schiavi e padroni
Lo schiavo poteva essere venduto o anche ucciso dal suo padrone, benché a Roma in età imperiale le leggi mitigarono questo potere dominicale. In diritto romano nei contratti di vendita degli schiavi era possibile cercare di evitare abusi nei loro confronti, come attraverso l’inserimento della clausola che impediva al nuovo dominus di far prostituire la schiava. Anche in Grecia esistevano delle limitazioni agli abusi dei padroni introdotte da leggi.

Vi erano schiavi che vivevano in condizioni migliori di altri, che dirigevano il lavoro di altri schiavi e, in Grecia, che potevano lavorare fuori della casa del padrone, versando a quest’ultimo parte dei loro guadagni (apophorà). In Grecia come a Roma lo schiavo poteva avere un peculio, che nel diritto romano è definito come un insieme di beni (vesti, denaro, altri schiavi, perfino fondi e diritti di credito) dei quali il dominus, pur conservandone la proprietà, dava la disponibilità al suo schiavo.

Schiavi e peculio
In genere quando lo schiavo veniva liberato il peculio gli veniva lasciato, cosa che si verificava anche nel mondo greco, per quanto possiamo sapere dalle scarse fonti in argomento, tra le quali ricordiamo il testamento di Aristotele nella testimonianza di Diogene Laerzio, Vite dei filosofi 5.14-15: “Ambracide sia libera… , e le siano date 500 dracme con la schiava che ella ha adesso; siano dati a Tales, oltre alla schiava che le ho comprato, 1000 dracme ed un’altra schiava”.
Grazie al peculio a Roma gli schiavi potevano compiere operazioni commerciali, sia dietro ordine del dominus, ma in certi casi anche agendo di propria iniziativa.
L’arricchimento prodotto dall’attività dello schiavo andava al dominus, e nel caso in cui fossero stati danneggiati dei terzi, era il dominus ad essere citato in giudizio.

Schiavi e attività commerciali 
Secondo il tipo di azione processuale esperita dai terzi, il padrone poteva essere condannato nei limiti dell’arricchimento o in quelli del peculio dello schiavo. Gli schiavi potevano gestire una bottega o un’impresa marittima o una qualsiasi attività commerciale (come vedremo ampiamente più avanti) impiegando anche altri schiavi che talvolta potevano far parte del loro peculio, i cosiddetti schiavi vicari (i loro peculi facevano parte del peculio dello schiavo « superiore », l’ordinario), tanto che si è parlato di « capacità patrimoniale degli schiavi ».
In Grecia gli schiavi potevano stare in giudizio in particolari casi di azioni commerciali, nelle quali non aveva importanza la condizione giuridica delle parti, cosa che invece non era possibile a Roma.

Schiavi privilegiati e famiglia servile
In Grecia come a Roma tra gli schiavi privilegiati bisogna considerare i «servi publici», soprattutto quelli delle città, e a Roma, durante il Principato, gli schiavi imperiali (servi Caesaris), in particolare durante il I secolo d.C. svolsero un ruolo di rilievo nell’amministrazione: secondo alcuni studiosi potevano fare testamento per la metà del loro peculio (l’altra metà andava all’imperatore).
Lo schiavo non poteva avere una famiglia legittima, ma capitava a volte che degli schiavi che vivevano insieme avessero dei figli. Ciò non aveva alcuna rilevanza giuridica, ma a Roma nel momento in cui lo schiavo veniva liberato e ne aveva la possibilità economica, poteva riscattare la sua compagna ed i suoi figli,  dando effetti giuridici all’unione attraverso il matrimonio.
L’unione, che prima era definita «contubernium», con il matrimonio definiva la posizione dei discendenti, che diventavano così figli legittimi.

Schiavi e diritto criminale
Nell'ambito del diritto criminale, in Grecia gli schiavi potevano testimoniare sotto tortura nei processi per omicidio, se il dominus dava il suo consenso.
A Roma gli schiavi potevano essere sottoposti a tortura per testimoniare o confessare riguardo a determinati crimini (adulterio, lesa maestà, frode fiscale), ma la facoltà di torturare gli schiavi fu limitata da un rescritto dell’imperatore Adriano (princeps dal 117 al 138 d.C.).
Lo schiavo greco, come quello romano, poteva accedere alla sfera religiosa; a Roma il dominus doveva assicurare una sepoltura allo schiavo, e la sua tomba era «locus religiosus».
Si usciva dalla condizione servile con la manumissione.

Liberazione degli schiavi
Nel diritto attico esistevano manumissioni civili, con la dichiarazione solenne del padrone di voler liberare lo schiavo, e religiose, con le quali il padrone vendeva fittiziamente lo schiavo alla divinità.
Anche a Roma esistevano differenti modalità di manumissione: la differenza fondamentale con il diritto attico era che a Roma il liberto diventava cittadino romano, mentre il manomesso greco (apeleutheros) non diventava cittadino, ma la sua condizione giuridica era assimilabile a quella dei « meteci », cioè gli stranieri residenti ad Atene.
A Roma durante il Principato i giuristi cominciarono ad ispirare le loro decisioni al favor libertatis, vale a dire che nei casi incerti prendevano la decisione favorevole alla libertà dello schiavo.

I liberti
Nello stesso periodo, il diritto introdusse delle limitazioni alle manumissioni effettuate in frode ai creditori: gli schiavi che erano liberati contro queste disposizioni diventavano «Latini» (Aeliani), erano cioè assimilati ai Latini abitanti delle colonie romane, non conseguendo la piena cittadinanza romana.
Sia in Grecia che a Roma il liberto aveva degli obblighi nei confronti del suo patrono (ex-dominus), che in Grecia comprendevano anche l’obbligo di restare per un periodo di tempo presso di lui o presso altra persona da lui indicata.
Il cristianesimo, nel Tardo Impero, fornì il suo contributo al miglioramento delle condizioni degli schiavi, senza che mai si giungesse, però, a teorizzare l’abolizione della schiavitù.

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LETTERA AI FILIPPESI

" Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi, con i vescovi e i diaconi."

Questa lunga lettera consta di 4 capitoli: nel primo San Paolo esprime un ringraziamento a Dio e l'assicurazione del suo costante ricordo e delle preghiere che egli dedica alla comunità di Filippi. Segue poi la precisa informazione sulla sua situazione personale e sul come egli intende dedicare della sua vita a Cristo continuando a lottare.

Nel secondo capitolo egli sottolinea abilmente il dovere che un cristiano ha di operare con rettitudine di intenzione e non per orgoglio e vantaggio personale, ricordando l'esempio di Gesù Cristo, che spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini per salvarli dal male. Annunzia loro che dopo Epafrodito, che raccomanda caldamente di accogliere il meglio possibile, spera di poter presto inviare Timòteo, per essere confortato nel ricevere notizie, e poi annuncia anche che intende venire di persona a Filippi appena possibile.

Nel terzo capitolo indica quale sia la via della santità personale raccomandando caldamente le norme di vita che aveva indirizzato anche alle altre comunità ed esortando a un comportamento da veri cristiani.
"Perché molti, ve l'ho gia detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra."

È proprio il caso di dre: NIHIL SUB SOLE NOVI!

Nel quarto capitolo dà gli ultimi consigli e le ultime esortazioni, e ringrazia per l'aiuto che gli hanno mandato.

"Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. Ben sapete proprio voi, Filippesi, che all'inizio della predicazione del vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli; e anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario......"

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LA LETTERA AI GÀLATI

La Galazia (dal latino: Galatia) era un'antica provincia dell'impero romano che comprendeva parte dei territori dell'attuale Turchia centrale.

Nel 64 a.C. la Galazia divenne uno stato associato all'Impero Romano, mantenendo la suddivisione in tre tribù (ciascuna delle quali con a capo un tetrarca). Al tempo di Cesare, uno dei tre tetrarchi,Deiotaro, prese il sopravvento sugli altri due e venne riconosciuto dai Romani quale "re" della Galazia. Con la morte del re Aminta (25 a.C.), la Galazia fu definitivamente incorporata nell'impero da Augusto, tant'è che Pilamene, erede dell'ultimo re galata, ricostruì un tempio presso Ancyra dedicandolo ad Augusto in segno di lealtà all'impero. Nei secoli successivi, del resto, la Galazia si dimostrò una delle province più fedeli a Roma. Sotto Diocleziano fu divisa in Galatia prima e Galatia Salutaris.

Le chiese della Galazia avevano prestato fede al messaggio di un gruppo di fariseo-cristiani che sosteneva che per essere salvi bisognava farsi circoncidere. E San Paolo reagisce:
"Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo."
Cosí inizia l'ammonizione che San Paolo indirizza agli abitanti della Galazia, che stavano allontanandosi dall'ortodossia evangelica. Dopo aver riassunto i suoi viaggi in favore dell'evangelizzazione, e narra di essere tornato a Gerusalemme e aver consultato San Pietro.

Nel secondo capitolo della lettera, egli parla della necessità di abbandonare l'usanza giudaiche della circoncisione e riconosce implicitamente l'autorità di Pietro come capo della Chiesa, ma Paolo non poteva che opporsi ad un comportamento che avallava in qualche modo la necessità della circoncisione e dell’osservanza delle norme della Legge come fatto necessario alla salvezza portata da Cristo. Si deve notare come Paolo ha piena consapevolezza dell'autorità preminente di Pietro.
Tuttavia prima del Concilio di Gerusalemme anche Pietro era in contraddizione, poiché neppure lui osservava le norme giudaiche riguardo alla distinzione tra cibi mondi e immondi, non i riti di purificazione delle abluzioni giudaiche, non riteneva impuro l'avvicinare un pagano, l'entrare nella sua casa, il toccare un morto, ma permetteva la pratica della circoncisione.
"Riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare."

Nel terzo capitolo, ma in modo meno pesante di quello che aveva usato per gli efesini, richiama alla morale e al comportamento che un cristiano deve tenere nei confronti del mondo, di sé stesso e della sua comunità. Per conseguenza nel quarto capitolo egli svolge opera di catechesi sulla fede e la legge, e sulla funzione della legge, che è il “sistema” per far conoscere il peccato, e la funzione della fede che stimola ad evitarlo e permette di passare dalla morte alla vita; e lo fa sviluppando argomentazioni dottrinali di straordnaria profondità e chiarezza logica. Con ciò egli afferma e dimostra la validità della vecchia alleanza con Dio che prosegue con la nuova Alleanza e la promessa della salvezza per i seguaci del Messia Gesú Cristo..La Legge è stata dunque un pedagogo, poiché ha dato consapevolezza del peccato, fino a Cristo. Con Cristo la Legge pedagogo cessa la sua funzione poiché nella fede in Cristo si ha la rigenerazione nello Spirito Santo. L'evento è avvenuto nel Battesimo nel quale i battezzati deposte le brutture del peccato si sono “rivestiti di Cristo”. La realtà nuova in Cristo fa sì che siano annullate le pretese etniche dei giudaizzanti di essere depositari di salvezza, poiché la salvezza è Cristo. Dunque “Non c'è Giudeo né Greco...perché tutti voi siete uni in Cristo”.

Nel quinto capitolo esorta ancóra una volta i Galati a lasciarsi guidare dallo spirito: "se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge.Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come gia ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé contro queste cose non c'è legge".

Epilogo

"Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l'essere nuova creatura."

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LA LETTERA AI ROMANI

La lettera è di straordinaria lunghezza e importanza (16 capitoli) e presenta la comunità di Roma. Nella lettera, forse scritta nella primavera del 58 a Corinto, la chiesa di Roma è considerata come ben formata e ben coordinata in Chiesa. celebrata, come dice Paolo (1,8; Cf. 16,19), “In tutto il mondo”, degna quindi dell'importanza di Roma, capitale del mondo, e anche per questo destinata ad essere anche capitale della cristianità.

Quando Paolo venne condotto prigioniero a Roma, per la prima volta un gruppo di cristiani lo raggiunse a Foro Appio e alle Tre Taverne (At 28,15), segno che la comunità aveva capacità di informazioni. Si pone il problema di come si sia originata tale comunità. Il primo annuncio non poté essere portato a Roma che da quei Giudei di Roma, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste (At 2,10) e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. L'evangelizzazione del mondo giudaico partì subito a Pentecoste, quella del mondo pagano qualche anno più tardi ad opera di Paolo. 

Autenticità della lettera e canonicità 
Nessuno ha mai messo in dubbio l’autenticità paolina della lettera, neanche gli autori protestanti e razionalisti. Solo qualche critico radicale del XIX sec.e la cosiddetta “Scuola olandese” ne hanno negato l’autenticità, ma non hanno avuto seguito. 
A favore dell’autenticità testimoniano i Padri Apostolici, alcune citazioni nelle lettere delle Chiese di Lione e di Vienne, e negli scrittori gnostici del II sec. (Basilide, Valentino, Marcione). Sant’Ireneo, Clemente Alessandrino, Tertulliano, il frammento Muratoriano (170 d.C. Lista dei testi del Nuovo Testamento accolti come canonici), ecc. che attribuiscono senza esitazioni la lettera ai Romani all’apostolo Paolo.

Luogo e tempo di composizione 
Dagli Atti e dalla lettera stessa si ricava che Paolo per circa tre anni stette a Efeso, poi si diresse a Corinto dove vi rimase tre mesi (At 20,1s). Successivamente si recò a Gerusalemme contando di giungervi verso la Pasqua, portando il frutto delle collette fatte in Acaia e in Macedonia. Giunse però a Gerusalemme, per una congiura ordita contro di lui, solo per la Pentecoste (At 20,3.6.16), E’ durante la breve permanenza a Corinto che Paolo scrisse la lettera ai Romani, come si deduce da vari indizi.
Il tempo della composizione della lettera è valutabile verso la primavera del 58, prima della Pasqua (At 20,6). L’arresto di Paolo avvenne in questo anno dopo il suo arrivo a Gerusalemme (At 20,16), essendo partito da Corinto.

Scopo della lettera 
La lettera ai Romani risultando un vitale apporto alla ricchezza di quella comunità, non è la semplice lettera di presentazione per un arrivo imminente - sperato come tappa per un viaggio di evangelizzazione in Spagna (Rm 15,24s), ma una anticipazione dottrinale per l’evangelizzazione tra i Giudei e i pagani, che Paolo si riprometteva di fare a Roma. Paolo non è solo un teologo, ma è anche evangelizzatore sul terreno: un apostolo teologo. . 
Paolo vuole innanzitutto premunire i cristiani contro le suggestioni del paganesimo forte del potere imperiale, presentando la situazione di vizio che ha come radice la negazione dell'esistenza di Dio, che invece si può dedurre dalle realtà create. 
Paolo, tuttavia, afferma che vi sono in mezzo ai pagani uomini che vivono la Legge, cioè l'amore verso Dio e verso il prossimo, pur senza provenire dalla Legge. Essi, seguendo la retta coscienza e con l'aiuto di Dio, sono Legge a se stessi. Questo è il caso più alto, ma esistono anche casi di onestà, pur non arrivando a sottrarsi completamente alla cultura religiosa pagana. 

Paolo vuole che i cristiani nella loro opera di evangelizzazione vedano la presenza di segni positivi tra i pagani e li valorizzino. Paolo stesso si dichiara debitore dei Greci come dei barbari, dei sapienti come degli ignoranti. 
Altro obiettivo di Paolo è quello di chiarire quale dev’essere il rapporto dei cristiani coi Giudei. I cristiani potevano scoraggiarsi ritenendo invalido l’annuncio evangelico di fronte al rifiuto giudaico, oppure, al contrario, potevano persegcuire comportamenti violenti. La dottrina relativa alla Legge e alla fede in Cristo viene presentata in modo tale che i cristiani sappiano annunciare la loro fede ai Giudei invitandoli alla conversione a Cristo. 
Paolo afferma che i Giudei non hanno alcun titolo per combattere il Vangelo, poiché rifiutandolo entrano in contraddizione con la ragione per la quale sono stati costituiti. 
La giustificazione dai peccati avviene non per mezzo delle opere, ma per mezzo della fede in Cristo, fede che comporta il camminare secondo lo Spirito e non secondo la carne. I Giudei hanno rifiutato Cristo, annunciato dalle Scritture e che dovevano attendere, e con ciò sono entrati nella disobbedienza. 
La situazione di Israele tuttavia non è senza speranza, poiché un giorno si aprirà a Cristo. 
Nella lettera ai Romani non si avverte la presenza di particolari contrapposizioni tra giudeo-cristiani e cristiani provenienti dal paganesimo. Circa le disposizioni del Concilio riguardo ai cibi, Paolo fa appello, come già nella prima lettera ai Corinzi (8,1s), alla carità dei forti verso i deboli, e al rispetto delle opinioni, che, ovviamente, non tocchino la fede o la morale. Tutto è affidato alla maturazione nella carità. 
Paolo vuole denunciare la presenza di cristiani di nome ma non di fatto, che non servono Cristo, ma “il proprio ventre”, deformando la libertà data da Cristo come giustificazione di libertinaggio (1Pt 2,16). Non mancano nella lettera indicazioni sul comportamento dei cristiani verso l'autorità civile costituita.

La lettera ai romani ci dice come la comunità di Roma fosse già ben formata e più coesa nella unità di vita delle altre. La base di 'virtus' e la serietà dei romani del primo secolo evidentemente forniscono le basi di virtù umane necessarie per testimoniare meglio l'adesione alla dottrina Cristiana.

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LE DUE LETTERE AI TESSALONICESI

La città di Tessalonica (Θεσσαλονίκη) era la capitale della provincia romana di Macedonia e costituiva un vivacissimo centro commerciale. La sua popolazione era cosmopolita anche perché la città era costruita sulla Via Egnatia che congiungeva l'Oriente con Roma passando per Durazzo. Il numero dei suoi abitanti al tempo di Paolo contava circa 150.000 unità.

San Paolo andò a Tessalonica dopo il Concilio di Gerusalemme, verso la fine del 50 d.C, durante il secondo viaggio missionario. Tessalonica sorgeva nella punta nord del bellissimo Golfo Termaico e venne in seguito chiamata Salonicco. Dall 1937 si ritornò a chiamarla Thessaloniki.

La comunità fondata da Paolo doveva contare non più di alcune centinaia di persone, nel momento della fondazione.
I cristiani si riunivano in giorni fissati (il giorno dopo il sabato) in varie case private (At 2,46; 4,31; Rm 16,5.10.11; 1Cor 16,19; Fil 4,22; Col 4,15) per la preghiera, poco prima dell'alba, poi si riunivano di nuovo per la cena (Plinio il giovane “Epistola a Traiano X,96,1-9”).
Dopo la cena, una volta stabiliti i presbiteri, c'era la celebrazione Eucaristica. Non mancavano riunioni serali di tutti i membri della comunità. Paolo iniziò la sua predicazione partendo dalla sinagoga, ma venne rifiutato, così al terzo sabato decise di passare ai pagani (At 17,1-4), e vi ebbe successo.

Paolo restò a Tessalonica per tre o quattro mesi. I Giudei, vedendo che i pagani si aprivano al messaggio di Paolo, complottarono per ucciderlo insieme al suo compagno Sila. Durante la notte Paolo e Sila poterono fuggire da Tessalonica e andare a Berea, dove trovarono Timoteo. Ma i Giudei raggiunsero il gruppo missionario anche a Berea, per cui Paolo dovette raggiungere Atene, mentre Sila (alias, Silvano) e Timoteo rimasero a Berea, con il proposito di ricongiungersi con Paolo ad Atene.

La comunità dei Tessalonicesi aveva avuto una prima catechesi per l'accesso ai sacramenti, ma non aveva ancora superato le difficoltà che si affacciavano nella loro mente di cristiani convertiti dal paganesimo. Paolo tentò per ben due volte di ritornare a Tessalonica, ma difficoltà improvvise glielo impedirono (At 17,5-9.13-15;18,1). Perseguitato dai Giudei di Tessalonica che lo inseguivano, dovette riparare ad Atene. Da Atene mandò a Tessalonica Timoteo (3,1-5), che poi raggiunse Paolo a Corinto, rassicurandolo sulla vitalità della comunità dei Tessalonicesi.

C'erano tuttavia difficoltà nel credere alla risurrezione dei morti al momento del ritorno del Signore, e qualche propensione di alcuni verso le licenziosità pagane. Dopo le notizie riportate da Timoteo, Paolo inviò da Corinto una lettera ai Tessalonicesi, che è, in ordine di tempo, la prima scrittura del Nuovo Testamento. A distanza di due o tre mesi Paolo scrisse alla comunità di Tessalonica una seconda lettera. Il tono della lettera è molto dolce. Paolo non ha di fronte a sé delle situazioni gravi, ma delle persone che hanno bisogno di completare la loro formazione cristiana.

Gli argomenti della prima lettera sono:
Ringraziamento e compiacimento per il buon comportamento dei cristaiani della città
Invito alla santificazione
Esortazione a rimanere vigilanti in vista del ritorno del Signore e della resurrezione dei morti

La seconda lettera ai Tessalonicesi venne scritta da Paolo a Corinto (probabilmente primavera del 52), poco tempo dopo la prima lettera, come provano la rassomiglianza di stile e di terminologia e anche la complementarietà tra le due.

La ragione della lettera sta nel turbamento subentrato nella comunità a causa di voci che davano per imminente il ritorno del Signore. La resistenza agli urti delle persecuzioni era salda, ma le voci sull'imminente fine del mondo stavano togliendo la speranza di un'espansione apostolica, poiché ormai tutto era alla fine. Ciò dava spazio anche a comportamenti di disaffezione per il lavoro, con il pretesto di preparasi al ritorno del Signore. Paolo, per consolidare la fede e la speranza dei Tessalonicesi, aveva dato indicazioni sul futuro, ma queste correvano il rischio di essere rimosse di fronte all'idea di un imminente ritorno del Signore.

Come si ricava dalla lettera, Paolo aveva parlato di una futura apostasia nella futura civitas cristiana. Paolo non esita a riproporre ai Tessalonicesi l'orrore dell'apostasia, che essi non dovranno vivere, ma che tuttavia devono considerare per non adagiarsi nell’idea di una futura situazione rosea sulla terra, con conseguente perdita di forza dell'attesa del Signore e della militanza in Cristo.

La lettera è meno espansiva della prima, ma ciò è perfettamente logico, perché la situazione nella comunità cristiana di Tessalonica era diventata preoccupante: false rivelazioni, false considerazioni sugli eventi, false lettere immesse nella comunità come scritte da Paolo.

Anche qui è proprio il caso di dre: NIHIL SUB SOLE NOVI!

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LE DUE LETTERE A TIMÒTEO

Timoteo (colui che onora Dio) era nativo di Listra, in Licaonia, nell’Asia Minore. Suo padre era un pagano e la madre una giudea. La madre Eunice e la nonna Loide iniziarono Timoteo alle Scritture fin dall’infanzia (2Tm 3,15). La madre e la nonna dovettero convertirsi a Cristo durante le prime due presenze missionarie (47 ca) di Paolo a Listra (At 14,6.21; 2Tm 1,5). Paolo incontrò Timoteo già cristiano nel secondo viaggio missionario (49 ca), e poiché era assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio (At 16,2) lo associò a sé insieme a Sila. Paolo lo fece poi circoncidere (At 16,3) per dargli lo status giudaico, essendo il padre un greco, e ciò era conosciuto.

Gli Atti degli Apostoli terminano con l'arrivo a Roma di Paolo prigioniero e il suo soggiorno in una casa presa in affitto (28,30), ma gli studiosi dalle tre lettere pastorali (1Timoteo; Tito; 2Timoteo) sono concordi nel dire che Paolo ritornò nell’area asiatica al termine di due anni di custodia cautelare (63 d.C.), visto che i suoi accusatori Giudei non si presentarono davanti al tribunale di Cesare (At 28,21). facendo scadere il termine della prescrizione. Con ciò era caduta la ragione d’essere del processo.

La prima lettera venne scritta da Paolo a Timòteo (che Paolo sveva posto alla guida della chiesa di Efeso) da una località della Macedonia, probabilmente già da Mileto, poiché risulta che il viaggio di andata in Macedonia fu per via mare con partenza da Mileto e arrivo a Corinto dove Paolo lasciò Erasto (2Tim 4,20). La lettera a Timoteo (come quella a Tito) dovette essere molto repentina, dopo avere constatato la forte incidenza (Cf. At 20,29) della propaganda dei falsi dottori giudaizzanti.

La Pontificia commissione biblica nel 12 giugno 1903 concluse che: “Dalle Pastorali risulta con certezza che l’Apostolo fu prigioniero a Roma due volte”. Il capo d’accusa era come il precedente formulato dai Giudei (At 24,2), con l’aggravante di essere recidivo e di avere inoltre disertato il tribunale di Cesare.
Pur lasciato solo, Paolo riuscì con l’aiuto del Signore ad essere liberato dalla bocca del leone (2Tm 4,17), che con metafora indica probabilmente la consegna ai Giudei. Giunto a Roma in custodia militaris, l’attesa comparizione davanti al tribunale di Nerone dovette slittare a data da destinarsi, e con ciò Paolo poteva pensare ad un’azione evangelizzatrice, pur in libertà limitata, con Timoteo e Marco. A Roma Paolo venne raggiunto da Tito (2Tm 4,19), che poi andò in Dalmazia. Lo raggiunse anche Luca, che prima doveva essere presente nella Palestina (Lc 1,1s).

La data della seconda lettera a Timoteo si colloca poco prima dell’incendio di Roma (18 luglio 64), che diede il via alla persecuzione di Nerone.

Prima del 64 nella capitale dell’impero non c’erano particolari pericoli per i cristiani, ancora confusi con quelli di religione giudaica, che giâ dai tempi di Pompeo e poi di Cesare avevano ottenuto il riconoscimento di alcuni diritti particolari. Tuttavia c'è da ricordare che l'imperatore Claudio per un certo periodo aveva bandito i Giudei da Roma, in quanto provocavano continuamente disordini, violenze, e assassinî a causa delle loro dispute religiose.
Paolo poteva pensare ad un alleggerimento delle condizioni della carcerazione tali da permettere un’azione evangelizzatrice con Timoteo e Marco, che al momento della lettera doveva trovarsi ancóra nell’area di Efeso.

I contenuti della prima lettera, dopo l'abituale saluto, con la costante di affermarsi apostolo per volontà di Dio, e perciò non di uomini, riguardano aspetti e disposizioni dottrinali. La retta dottrina acquista valore in quanto chi non la segue non solo si pone al di fuori della Comunità ecclesiale, ma anche tende a creare una frattura nella comunità stessa.

L'insidia dei falsi dottori che insegnano dottrine strane e raccontano favole e genealogie interminabili, non consone alla fede, fanno discorsi senza senso, pretendendo di essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono né ciò di cui sono tanto sicuri. Le dottrine diverse divulgate da “taluni” non sono precisate, ma rientrano nel quadro della sopravvivenza delle pratiche giudaiche, non più giudicate necessarie alla salvezza, poiché il Concilio di Gerusalemme aveva rigettato questo concetto, ma giudicate utili per la santità. Le favole sono quelle giudaiche (Tt 1,14) su personaggi dell’A.T. Accanto a questo c’era chi affermava il valore di una data posizione sulla base di lunghissime genealogie, che tanto più erano lunghe tanto più sembravano credibili. San Paolo affida a Timoteo il compito di combattere l'eresia e di ricondurre quei pretesi dottori della Legge a tendere alla carità. e alla fede in Cristo .

Paolo afferma d'essere un esempio della misericordia di Dio. “Prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento”. Paolo Riconosce di essere stato un “persecutore” , “Perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede”. Un peccatore, ma non un corrotto, cioè uno che agisce con scelta di perversione contro la verità conosciuta. Paolo non aveva peccato contro lo Spirito Santo, quindi “Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna

Invito a combattere la buona battaglia.
Questo è l’ordine che ti do, figlio mio Timoteo, in accordo con le profezie già fatte su di te, perché, fondato su di esse, tu combatta la buona battaglia, conservando la fede e una buona coscienza. Qui Paolo tratta di alcuni, infatti, avendola rinnegata, hanno fatto naufragio nella fede; Paolo parla degli gnostici tra questi Imeneo, negatore della resurrezione dell carne. E’ la scomunica, la quale è data quando l’eresia non resta un fatto privato, ma viene propagandata per creare una frattura all’interno della Chiesa. La scomunica ha come scopo il ravvedimento. La consegna a Satana è il fatto diretto della scomunica, che è l’esclusione dalla comunità e dai beni della comunione dei santi. Le eresie sono opposizioni alla verità e per questo possono essere equiparate alle bestemmie

Disposizioni
" Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche. Allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma, come conviene a donne che onorano Dio, con opere buone."

Insieme ai tanti precetti l’ordine perentorio riguardo alle donne,(la donna non domini sull’uomo perché il potere della donna sull’uomo è già di natura tanto) si estende all’insegnamento nelle assemblee e alla gestione dell’autorità ecclesiale; dà disposizioni riguardo al vescovo che sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Il vescovo sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo... etc etc.

Le qualità che il vescovo deve avere non sono affatto di poco conto. Egli deve essere “irreprensibile”, cioè deve dare il buon esempio in tutto, essere sempre corretto con tutti e anzi precedere con il buon esempio tutti ponendosi al servizio di tutti. Deve essere “marito di una sola donna”, ritenuto come segno di temperanza e di fortezza, nonché di dedizione alla comunità. I primi cristiani erano in gran parte sposati, ma una volta cristiani in caso di vedovanza non era stimato segno di virtù passare a nuove nozze.

Il pensiero di Paolo circa il matrimonio e la verginità è noto (1Cor 7,1): lo stato celibatario è da preferirsi per il presbitero.
In questa lettera le disposizioni di Paolo coprono ogni stato del singolo fedele, sia uomo che donna, sia 'laico' che diacono o presbitero, vedovo o sposato, libero o schiavo e le raccomandazioni sono tassative e molto dettagliate.

Paolo parla di sobrietà, di sincerità, di onestà nel guadagno e amministrazione dei beni e di tutte le altre virtù inclusa la fede, e lo fa in modo esplicito, senza peli sulla lingua. Specialmente raccomanda a tutti unità di vita, cioè essere cristiani non solo di di nome, ma con il loro comportamento o le loro virtú di essere stimati e costituire esempio per tutti per attrarre a Cristo.

Paolo si spinge anche dire che le religioni non cristiane possono essere anch'esse delle vie di salvezza stabilite da Dio. La Religione vera è una sola, ma anche nelle altre si possono trovare e si trovano valori positivi. Poiché l’opera salvifica di Cristo è per tuuti gli uomini purché onesti e retti.

O Timoteo, custodisci ciò che ti è stato affidato; evita le chiacchiere vuote e perverse e le obiezioni della falsa scienza”. “Le chiacchiere vuote e perverse” sono quelle intese a gettare lacci con raggiri di parole, con insinuazioni di dubbio, nell’ipocrisia di far credere che siano pronunciate per cercare la verità. “Evita…le obiezioni della falsa scienza”. Timoteo deve certo conoscere gli errori degli gnostici per confutarli, ma è invitato a non voler addentrarsi nei loro discorsi di errore credendo di diventare un dotto confutatore, poiché finirebbe per trovarsi dentro un ginepraio costruito ad arte per disorientarlo. La confutazione migliore e decisiva è data sempre dalla vita in Cristo. Timoteo è così invitato ad agire sempre nell’intima unione allo Spirito di Verità che agisce in lui

“La grazia sia con voi!”.è l’augurio finale.

LA SECONDA LETTERA A TIMOTEO
Il secondo arresto di Paolo avvenne sulla rinnovata accusa dei Giudei, uguale a quella del primo arresto, aggravata con la falsa accusa di aver violato gli arresti domiciliari. Con tutta probabilità, avvenne a Troade, città della Misia, durante il viaggio di ritorno dalla Macedonia; ne è indizio il fatto (4,13) che Paolo non poté prendere con sé il mantello e le pergamene. Quelli che potevano sostenerlo lo abbandonarono a se stesso, impressionati da un arresto che qualificava l'apostolo come un malfattore. Dopo l'arresto ci fu un'udienza preliminare in un tribunale, con tutta probabilità a Troade; non avrebbe altrimenti risalto il fatto che quelli dell'Asia lo abbandonarono (2Tm 1,15; 4,16). Non si può pensare per la prima udienza la città di Efeso poiché c'era Timoteo, e ora ne viene informato. Paolo però riuscì a difendersi e ad essere inviato di nuovo a Cesare e non consegnato ai Giudei.

La seconda lettera a Timoteo Paolo la scrisse da Roma (1,17) a breve distanza dal tempo dall'arresto, con tutta probabilità prima del luglio del 64, quando Nerone, cogliendo i suggerimenti dei Giudei, e per discolparsi dall'accusa di averlo appiccato egli stesso, incolpò i cristiani dell'incendio che investì molti quartieri di Roma. La persecuzione di Nerone (che nel 68; morì suicidandosi) rimase circoscritta alla sola città di Roma, ma vi durò fino alla morte dell'imperatore; fuori di Roma si ebbero solo episodi sporadici.

L'incendio di Roma fu di tali proporzioni che divorò anche la reggia di Nerone, causando problemi logistici, confusione. Difficile pensare che Nerone avesse in quel frangente il tempo per giudicare uno che si era appellato a lui per questioni strane. Poi nel 65 venne ordita una congiura per sopprimerlo, e anche qui aveva da pensare ad altro; tra i congiurati anche Seneca. Nel 66 ci fu un'altra congiura. Poi nel 66 o 67 Nerone fece un viaggio propagandistico in Grecia.
In tutto ciò non è impossibile pensare che Paolo, pur in custodia militaris, e mentre c'era la persecuzione a Roma, avesse capacità di movimento clandestino grazie alla complicità di qualche soldato romano, perché le crudeltà di Nerone contro i cristiani erano ormai viste come crudeltà senza senso.

La testimonianza cristiana Paolo la diede nel tribunale di Nerone nel 66/67/68, data del suo martirio: prima o dopo il viaggio dell'imperatore in Grecia. (Tertulliano, "Scorpiace, 15, 2-5"; Lattanzio, "De mortibus persecutorum, 2, 4-6"; Orosio, "Historiarum, VII, 7-10"; Sulpicio Severo, "Chronicorum, 3, 29").
Nerone lo condannò alla decapitazione in quanto cristiano: non alla crocifissione come già Pietro, poiché cittadino romano. (Atti di Paolo, scritti verso la fine del II). L'esecuzione avvenne nel luogo detto ad "Aquas Salvias" (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V), fuori dalle Mura Aureliane, sulla via Ostiense.

La seconda lettera a Timoteo fa parte delle tre lettere indirizzate a capi di chiese locali, e trattano del loro ministero. In ordine di tempo vengono: prima lettera a Timoteo, lettera a Tito, seconda lettera a Timoteo. Le tre lettere hanno un'estrema rassomiglianza di stile, specie la prima Timoteo e la lettera a Tito; vennero scritte a brevi distanze di tempo tra loro.
Lo scopo della seconda lettera a Timoteo è quello di fortificare Timoteo. Dopo l'arresto di Paolo, i falsi dottori giudaizzanti avevano sfruttato l'arresto per presentare l'apostolo non solo come un traditore della religione dei suoi padri, ma anche come un malfattore comune. Timoteo ne fu investito, da qui la preoccupazione della seconda lettera. L'apostolo Paolo dovette avere informazioni sulla situazione a Efeso da Onesìfero (1,15), che si recò da lui a Roma. Paolo aveva provveduto in breve a inviare Tìchico a Efeso (Tichico era un collaboratore di Paolo di origine asiatica, già presente presso Paolo nella prima prigionia a Cesarea (At 20,4) prima di essere trasferito al tribunale di Cesare, e latore delle lettere agli Efesini e ai Colossesi), quale valido collaboratore presso Timoteo per superare le difficoltà presenti nell'area Efesina, prima che Timoteo potesse partire per Roma, dove Paolo lo chiamava.

Esortazioni a Timoteo:
Come nella prima lettera sono assai dettagliate e riguardano ancora una volta la necessità di lottare per preservare l'ortodossia cristiana e la purezza dell'insegnamento di Cristo, affrontando con decisione incrollabile le sofferenze del milite di Cristo.
"Se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà". Se si cede al mondo, scegliendo il mondo e i suoi idoli, allora saremo sfigurati e Gesù non potrà riconoscerci per suoi e ci rinnegherà (Lc 13,22s).
"Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso". Cristo non rinnegherà se stesso, rimarrà fedele a se stesso, non muterà la sua parola per adattarsi a coloro che gli sono infedeli. (Eb 13,8) "Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre". (Lc 21,33: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno".

Come condurre la lotta contro gli errori e la necessità di prepararsi contro gli errori futuri sono come al solito esposti da Paolo nei minimi dettagli dottrinali, perché non vi sia possibilità che qualche cosa venga frainteso o interpretato. Alla fine troviamo

il cuore dell'esortazione: "BONUM CERTAMEN CERTAVI, CURSUM CONSUMMAVI, FIDEM SERVAVI"

Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.

Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, pur di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole.

Tu però vigila attentamente, sopporta le sofferenze, compi la tua opera di annunciatore del Vangelo, adempi il tuo ministero.

Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. 

Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.

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LETTERA A TITO


La persona di Tito
Gli Atti degli Apostoli non citano mai Tito, mentre nelle lettere di san Paolo è citato 12 volte. Con tutta probabilità Luca e Tito si incontrarono solo a Roma al tempo della seconda prigionia di Paolo (2Tm 4,9-10), cioè fuori dal quadro storico degli Atti degli Apostoli che termina con l’arrivo a Roma di Paolo per la prima prigionia.
Dalle sezioni scritte in prima persona degli Atti, che vanno attribuite a Luca, si deduce che Luca accompagnò Paolo nel suo secondo viaggio missionario da Troade a Filippi (At 16,10-40). Seguì poi Paolo durante il ritorno del terzo viaggio missionario da Filippi a Gerusalemme (At 20,6s 21,1-17). Presente nel tempo della carcerazione di Paolo a Cesarea (At 21,18; 26,32; Col 4,14; Fm 24), seguì l’Apostolo a Roma nella prima e poi nella seconda prigionia. A Filippi, nell’ambito del terzo viaggio missionario, ci fu una possibilità per Luca di incontrare Tito, ma questi dovette essere già partito per Corinto, secondo la disposizione di Paolo.
Di Tito sappiamo che era di origine pagana, e che andò con Paolo a Gerusalemme, dove non venne obbligato a circoncidersi (Gal 2,1). Pare che questa visita a Gerusalemme coincida con il tempo del primo Concilio (At 25,1s).
Ritroviamo Tito a Corinto, inviato da Paolo nello svolgersi della terza missione, dopo che l’Apostolo vi aveva già inviato Timoteo (1Cor 4,17; 16,10). Terminata la missione a Corinto, Tito raggiunse Paolo in Macedonia (2 Cor 7,6), con buone notizie. Quindi Paolo inviò di nuovo Tito a Corinto, probabilmente con la seconda lettera (2Cor 2,12-13; 7,5-7) e con la missione di condurre a termine una colletta per i poveri di Gerusalemme (2Cor 8,16-23).
La lettera a Tito presenta l’invito di raggiungere Paolo a Nicapoli d’Epiro (3,12), dove l’Apostolo intendeva passare l’inverno, tappa indubbiamente successiva a quella di Corinto (2Tm 4,20).
Non sappiamo se effettivamente Tito andò a Nicopoli, tuttavia troviamo Tito a Roma (2Tm 4,10s) accanto a Paolo, per poi passare in Dalmazia. Dopo la missione in Dalmazia, secondo Eusebio “Storia ecclesiastica, 3,4” e Teodoreto “Prima ad Timoteo, 3,1”, Tito tornò a Creta dove morì.

L'evangelizzazione nell'isola di Creta
Terminata la prima prigionia a Roma, Paolo raggiunse Creta con Tito svolgendo liberamente la sua azione evangelizzatrice. Nell’isola erano già presenti delle comunità cristiane. Erano cristiani provenienti dal giudaismo, ma c’era anche una minoranza proveniente dal paganesimo. Tutti avevano bisogno di essere istruiti di più e soprattutto di avere un’organizzazione di presbiteri e di presbiteri con incarico di governo: episcopi. A Creta Paolo lasciò Tito quale continuatore del lavoro avviato (1,5), dandogli delle istruzioni.
Paolo poi andò a Efeso dove pose Timoteo a capo di quella Chiesa. Paolo progettò poi un viaggio verso la Macedonia, con partenza dal porto di Mileto (2Tm 4,20) per arrivare a Corinto. A Mileto Paolo dovette maggiormente rendersi conto dell’estensione della propaganda dei falsi dottori, fino a sentire la necessità di una lettera a Timoteo e una a Tito, per più accurate indicazioni.
Il pericolo paventato da Paolo era che l’impianto cristiano nell’isola cedesse di fronte alla pressione di un giudaismo isolano molto potente, imbevuto di molte genealogie e tradizioni, nonché di fronte ad un sincretismo giudaico-cristiano-gnostico, di cui aveva visto la virulenza.
Nell’isola era forte la presenza pagana che millantava che la dea Rea avesse portato il figlio Giove a Creta per nasconderlo dal padre Saturno. Dionisio poi si era unito a Creta con Arianna, figlia del mitico Minosse, figlio di Giove e della dea Europa, dea della Luna. Insomma, i pagani di Creta avevano fatto in modo di dare prestigio alla loro isola con un intreccio di miti.
La lettera presenta l’invito a Tito di raggiungere Paolo a Nicapoli d’Epiro (3,12), dove l’Apostolo intendeva passare l’inverno, tappa indubbiamente successiva a quella di Corinto (2Tm 4,20).

L'indole della lettera
La lettera a Tito presenta una grande rassomiglianza con la prima lettera a Timoteo, ma quella di Tito è più concisa, asciutta, benché Paolo non trascuri di chiamare Tito, “Mio vero figlio nella medesima fede”.

Dopo l'abituale Indirizzo e saluto Paolo come sempre afferma che la sua autorità di apostolo proviene da Dio e che essa è finalizzata a “portare alla fede quelli che Dio ha scelto”. Passa poi, come nella lettera a Timoteo a dar le sue istruzioni a Tito sul proselitismo e l'organizzazione delle comunità e sulla correzione delle devianze: Per questo ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine in quello che rimane da fare e stabilisca alcuni presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato.

Anche qui Paolo dà in dettaglio istruzioni sul comportamento e l'unità di vita del fedeli laici, dei diaconi, dei presbiteri, dei vescovi e delle donne Descrive inoltre come deve svolgersi .l’azione pastorale e quale il nucleo dell’insegnamento.

OMNIA MUNDA MUNDIS. In piu del solito qui Paolo dichiara che l’impurità di certi cibi non ha più ragione di essere, essendo stata superata dall’avvento di Cristo. E’ quelli che sono corrotti nella fede che rendono tutto impuro perché usato nel vizio. Ci sono pure coloro che hanno corrotto il loro pensiero, ma anche hanno selciata la loro coscienza. Con loro Tito dovrà usare ogni fermezza. Come si vede, la situazione a Creta era molto complessa e necessitava di molta determinazione.

Paolo ricorda a Tito le raccomandazioni per i fedeli: ricorda loro di essere sottomessi alle autorità che governano, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlare male di nessuno, di evitare le liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.

Poi la lettera termina con i saluti e l’invito a trasmetterli a tutti quelli “che ci amano nella fede”, cioè sono veri credenti (Cf. Mt 10,40).
La grazia sia con tutti voi!”. Di fatto i saluti e questa benedizione autorizzano Tito a rendere pubblica la lettera tra “quelli che ci amano nella fede”. In tal modo, i fedeli dell'isola di Creta potranno constatare che il comportamento di Tito è in obbedienza alle indicazioni di Paolo.

CONCLUSIONE

Dalle 'lettere' emerge un mondo complesso, ma anche pratico ed essenziale, che non è sicuramente quello oppressivo violento e assetato di sangue rappresentato da certi storici o dipinto in tanti libri e in tanti filmati inenarrabilmente sciocchi. Quel mondo soprattutto non è cosí diverso da quello di oggi, cosí come non lo è il comportamento dei cristiani di allora appena usciti dal paganesimo - di molti di quelli che oggi sono o si dicono cristiani. Chissà mai cosa ci direbbe San Paolo sul nostro mondo, in confronto al mondo Romano nel primo secolo, o anche a quello che poi uscí dalla battaglia di Ponte Milvio a Saxa Rubra?

Nella lettera ai Romani Paolo vuole innanzitutto premunire i cristiani contro le suggestioni del paganesimo, presentando la situazione di vizio del paganesimo, e che essa ha come radice la negazione dell'esistenza di Dio, alla quale si può accedere dalle realtà create. 
Paolo, tuttavia, afferma che in Roma vi sono in mezzo ai pagani uomini che vivono la Legge, cioè l'amore verso Dio e verso il prossimo, pur senza provenire dalla Legge. Essi, seguendo la retta coscienza e con l'aiuto di Dio, sono Legge a se stessi. Questo è il caso più alto, ma esistono anche casi di onestà, pur non arrivando a sottrarsi completamente alla cultura religiosa pagana. 

Al giorno d'oggi, in occidente come altrove, prevalgono il relativismo e l'ateismo pratico, che è una negazione implicita del destino soprannaturale dell'umanità. I mezzi tecnologici e le conoscenze scientifiche sono stati forieri di grandi progressi e hanno ridotto l'incidenza delle malattie e della mortalità infantile; lungo i secoli, particolarmente negli ultimi due la polpolazione del globo è arrivata a 7 miliardi di persone, ed è desinata a crescere ancóra.
L'animo umano però non è cambiato e i problemi sono sempre gli stessi, ma ora sono aggravati dalle possibilità di commettere abomini finora sconosciuti come il commercio di organi, e ogni sorta di violazioni dell'etica e della sacralità della vita e della natura creata.

Quel mondo antico, pur pagano, non è quello che son soliti rappresentare i marxisti e i marxistoidi, che insegnando nelle scuole hanno pervertito per decenni le menti degli scolari presentando quel mondo in genere e il mondo romano in particolare, attraverso le lenti del becero pregiudizio e della crassa ignoranza; e quasi mai si ricorda che le basi del diritto dopo tanti secoli trascorsi sono ancora quelle di allora.
Nel territorio che è direttamente sotto il dominio Imperiale c'è liberta di religione, di parola, diritti precisi per la proprietà e il commercio, nel pubbico e nel privato. Le cariche pubbliche locali sono elettive; vige la legge, c'è un catasto dei beni immobili e degli schiavi, e si fa anche il censimento periodico della popolazione in generale. Chi sa fare qualcosa di utile, sia esso schiavo, liberto, o cittadino non ha problemi nel mantenersi.
Tutto ciò che accade è registrato negli 'Annales' che sono un diario puntuale degli eventi importanti e significativi.

C'è un calendario che con poche modifiche ancora oggi si usa, un modo di misurare il tempo e la suddivisione del dí e della notte in 12 ore, che usiamo ancora oggi. Per i Romani antichi la prima ora del giorno sono le sei di mattina, la terza sono le 9, la quarta mezzogiorno e cosí via fino alla dodicesima, perché il giorno finisce alle sei di sera. Ricordiamo che Gesù Cristo spirò all'ora nona, cioè alle tre del pomeriggio.

Ogni giorno della settimana del calendario è quasi sempre rimasto col nome del dio romano al quale era dedicato. Quelli di diversa origine sono in grassetto.

Giorni della settimana

Latino: dedicato a Italiano Francese Spagnolo Inglese Tedesco
Diana (la luna) Lunedí Lundi Lunes Moonday Montag
Marte Martedì Mardi Martes Tuesday Dienstag
Mercurio Mercoledí Mercredi Miércoles Wednesday Mittwoch
Giove Giovedí Jeudi Jueves Thursday Donnerstag
Venere Venerdì Vendredi Viernes Friday Freitag
Saturno Sabato Samedi Sábado Saturday Samstag
Apollo (Il Sole) Domenica Dimanche Domingo Sunday Sonntag

Mesi dell'anno

  Latino Italiano Francese Spagnolo Inglese Tedesco
11 Ianuarius Gennaio Janvier Enero January Januar
12 Februarius Febbraio Février Febrero February February
1 Martius Marzo Mars Marzo March März
2 Aprilis Aprile Avril Abril April April
3 Maius Maggio Mai Mayo May Mai
4 Iunius Giugno Juin Junio June Juni
5 Iulius Luglio Juillet Julio July Juli
6 Augustus Agosto Août Agosto August August
7 September Settembre Septembre Septiembre September September
8 October Ottobre Octobre Octubre October Oktober
9 November Novembre Novembre Noviembre November November
10 December Dicembre Décembre Diciembre December Dezember

 

L'industria nell'Impero è fiorente, perché i Romani usano le risorse locali ogni qualvolta sia possibile: oltre ai grandi cantieri navali, in tutto abbiamo la produzione in grande serie di ogni sorta di beni, dalla ceramica al vetro, dalle statue alle armi, e perfino del cibo conservato, come il famoso 'garum' la puzzolente salsa di pesce tanto apprezzata dai romani antichi, e anche gli allevamenti di bestiame. Non trascuriamo le scuole, tenute da 'magistri' privati alle quale si iscrivono i ragazzi che hanno il padre in grado di pagare le rette. L'analfabetismo a Roma è raro. Nell'esercito poi tutti devono saper almeno leggere e scrivere correttamente.

Nel II secolo a. C., la fine vittoriosa della Guerra Punica e l'incontro con la cultura greca liberarono nelle popolazioni italiche, ormai unite sotto Roma e temperate dai durissimi sacrifici sopportati, una straordinaria esplosione di energie e di vitalità. L'intero bacino mediterraneo si aprí alla conquista, allo scambio dei beni e delle opere culturali. Sul mare si disegnarono cento e cento rotte di civiltà tra l'oriente e l'occidente; le navi subirono sostanziali miglioramenti costruttivi  e con esse i recipienti e i metodi per il trasporto delle merci; le tecniche di navigazione erano ormai collaudate e perfezionate  non soltanto dall'esperienza bellica di tante battaglie navali, ma anche dalla attività piratesca che dovette la sua fortuna proprio ai progressi che l'uomo mediterraneo andava facendo nella conoscenza dei venti, delle correnti, dei fondali, dei ridossi

Il padre di San Paolo di Tarso, ripetiamolo, aveva un'industria tessile fiorentissima e apprezzata, che tra l'altro aveva l'appalto della fornitura delle tende per l'esercito romano. Per questo ebbe il riconoscimento della cittadinanza romana che trasmise al figlio Saulo.

Nell'impero il razzismo non esiste
, e ogni uomo e apprezzato per quel che vale ed e capace di fare. Ricordiamo un oscuro illirico ( uno slavo ) di nome Diocleziano, che si arruolò nelle legioni come soldato semplice e divenne alla fine grazie al suo eroismo e alla sua intelligenza, addirittura Imperatore.
Il concetto di VIRTUS ( dal latino vir = uomo ) ereditato dall'antica repubblica esaltava il concetto dell'onore, della magnanimità, del rispetto dei patti, oltre che del rispetto delle persone, e perfino il rispetto degli schiavi. I liberti, specialmente gli uomini di cultura o di scienza, erano numerosissimi e molto ricchi.

Senza voler minimamente lodare lo schiavismo, bisogna però dire che la 'virtus' romana impone che gli schiavi siano trattati bene. Del resto l'istituzione della schiavitù è continuata ed è finita in occidente nel XIX secolo, e perfino oggi c'è ancora in molte parti del mondo, specialmente in oriente.
Anche all'epoca della prima rivoluzione industriale gli operai erano in alcune realtà europee trattati peggio degli schiavi, specialmente dove il governo era nominalmente una 'democrazia popolare'.
Invece, leggendo i romanzi e le commedie del tempo dell'Impero che ci sono pervenuti ci rendiamo conto di come era la vita di tutti. A Roma gli schiavi liberati (i liberti) spesso giungono ad occupare posizioni addirittura dominanti nell'economia e nella politica.

Non è affatto vero che a Roma le grandi opere fossero costruite da schiavi, anzi per la numerosità della popolazione - si valuta che la città di Roma arrivasse a 3 milioni di abitanti, contro i cento milioni di tutto l'impero - le opere nelle grandi città venivano costruite per impiegare i cittadini romani, che venivano pagati per il loro lavoro per poter mantenere sé e la famiglia.

E cosí avveniva anche per il lavoro nelle campagne. Una legge di Giulio Cesare imponeva addirittura che almeno il 30% dei lavoratori dei campi fosse costituta da cittadini liberi. Alla fine del secondo secolo c'erano quasi 400mila chilometri di strade, che erano state costruite e venivano mantenute dai legionari e dai soldati quando in un territorio non c'erano guerre, perché i militari non dovevano mai infiacchirsi nell'ozio e perdere cosí la loro virtù e stoicità. Le strade non servivano solo al traffico civile, ma potevano poi permettere alle legioni gli interventi repressivi necessari a contrastare invasioni pirateria e brigantaggio.
Chi conosce la storia sa poi che il popolo romano non si faceva mettere i piedi in testa, e che la sopravvivenza di un imperatore dipendeva largamente, quando non esclusivamente, dal favore del popolo della città di Roma.

Nella Roma Antica fioriva ogni sorta d'artigianato e anche l'editoria. Ricordiamo che il poeta spagnolo Valerio Marziale faceva copiare e vendere le sue opere da un editore che aveva la bottega vicino al Campidoglio. La letteratura era fiorente come il teatro. È giunta fino a noi un'imponente mole di poemi, commedie, tragedie, romanzi e perfino libri di ricette di cucina, oltre alle opere dei filosofi e dei poeti greci..
Nel mondo romanizzato dell'impero l'analfabetismo è meno diffuso che nel mondo moderno, la valenza della legge e il rispetto del diritto e delle persone e il livello di democrazia è molto maggiore di quello che uno si aspetterebbe duemila anni fa, tanto è vero che la maggior parte dei magistrati viene eletta dai cittadini che rappresenta e amministra.


Si rispettano leggi e autonomie locali, e si costruiscono grandi infrastrutture, cloache, strade acquedotti e porti, che permettono a tutti spostamenti agevoli e veloci per quanto consentito dai mezzi tecnologici dell'epoca.
La possibilità di spostarsi e commerciare in relativa sicurezza per quasi tutto il mondo allora conosciuto facilitarono il diffondersi della romanizzazione; anche dopo il crollo dell'impero d'occidente le culture europee si poterono sostanzialmente omologare, poiché la lingua della cultura rimase per lungo tempo il latino, e nel mondo intero continuarono a esssere riconosciuti i principî di civiltà e del diritto, ancor oggi vigenti. E poi, a chi conosce un po' di latino e di etimología, risulta evidente che la maggior parte delle le lingue europee hanno risentito moltissimo dell'influenza della lingua madre, cioè del latino stesso e anche del greco antico.

L'esercito era poco numeroso, ma efficientissimo. Augusto aveva fissato il numero delle legioni a XXIII (circa 100.000 uomini in tutto) e più tardi si arrivò fino a circa 150.000 uomini. Malgrado tutti i problemi e i disastri, anche dopo la caduta, che iniziò con Costantino, e si completò dopo circa due secoli sotto la spinta delle popolazioni selvagge provenienti dall'est quando la capitale non fu più Roma, e dopo la parentesi longobarda, i vari grandi della storia tentarono di risuscitare l'Impero di occidente. Vedi Carlo Magno e il Sacro Impero Romano-Germanico.
Ma nessuno di loro ci riuscí pienamente, anche se il titolo di 'Cesare' spettò per ultimo all'Imperatore Francesco Giuseppe della casata degli Asburgo. L'Impero finì dunque nel 1918 con la caduta degli imperi centrali.

Comunque sia io sono orgoglioso di essere cittadino romano e ho l'onore d'avere l'Urbe per sede e per maestra d'alti pensieri storici e civili, (PaoloVI), e come me dal punto di vista storico sono cittadini romani i popoli che abitano la penisola, e anche quasi tutti gli Europei.
Palestina M
i stupisce quindi molto, e anche un po' mi irrita, come durante le omelie di certe domeniche, quasi tutti i sacerdoti cattolici parlino dei Romani Antrichi come 'occupanti oppressori e sfruttatori'. La demolizione del nostro glorioso e onorevole passato è iniziata come reazione alla retorica fascista, a supporto di quella marxista, ma è stata operata da maestri ciechi, tanto rozzi quanto ignoranti della storia dell'umanità..

Lino Bertuzzi Settembre 2014

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