SUL LAVORO BEN FATTO

Lavorare significa occupare il tempo nel fare qualcosa, traendone un vantaggio generalmente economico. Così recita l’enciclopedìa, che ne spiega anche l’origine etimologica che riporta al latino labor con il significato di fatica.

Un altro termine dialettale sinonimo di lavoro è travaglio, in francese ‘travail’ e in spagnolo ‘trabajo’; sono anche noti i detti della letteratura classica durar fatica e operar faticando; in alcuni dialetti si utilizzano i termini faticare, andare a faticare. Insomma, generalmente, come la stessa parola significa, il lavoro non è stato quasi mai visto come un dovere gioioso, bensì come una specie di fato ineluttabile e doloroso, come una maledizione, e necessario solo per procurare il sostentamento per sé e la famiglia. Di conseguenza, sempre che sia  possibile farlo senza danni,  una cosa da scansare o scaricare su altri reputati meno intelligenti.
Nel variegato universo umano troviamo però anche la faccia opposta, una mancanza della virtù umana della temperanza applicata al lavoro stesso. Si tratta della malattìa che io chiamo ‘professionalìte’, cioè il considerare il proprio lavoro come l’unico centro del proprio mondo – per i più vari motivi, denaro, orgoglio, necessità di affermazione personale agli occhi di sé stessi e di altri, avidità - e dedicarvisi quindi smodatamente a scapito di tutto il resto, della famiglia e delle relazioni sociali, per esempio.
Ci ho pensato bene, e ho pensato che  entrambi i modi di vedere il lavoro sono riduttivi, no? Credo dunque che, insieme al relativismo oggi in auge,  questi modi di pensare e di agire siano la causa di molti mali del mondo. Quando si verifica per esempio un incidente stradale, o magari anche sul lavoro, si va subito in cerca di chi accusare, delle responsabilità, meglio se collettive cioè della azienda, o magari del governo – piove, governo ladro! – “della società”. Una parte di ragione in questo modo di vedere c’è, perché in ogni caso in ogni fatto sono coinvolte delle persone, e le strutture collettive sono appunto anche composte di persone.
Quello di cui però non pare che si tenga mai conto è il fatto che si possono inventare apparati repressivi, fare leggi a iosa, e adottare tutte le politiche, le regole e le organizzazioni che si vuole, ma che se non c’è il senso del "DOVERE" e l’EQUILIBRIO nel fare le cose è tutto vano.  Ad esempio gli incidenti possono accadere per fatalità, certamente, e quindi non dipendere dalla volontà di nessuno, ma solo da una combinazione di circostanze negative concomitanti. Però anche le cause derivanti da carenze che si verificano nelle strutture organizzative o nelle cose sono dovute a mancanze o errori delle persone.
Nella maggior parte dei casi dunque, o per lo meno per quanto riguarda le decine e decine di casi di cui ho avuto esperienza personale, c’è sempre qualcosa che qualcuno avrebbe dovuto fare e non ha fatto, pur essendo a conoscenza della necessità di farlo e pur essendo la cosa esplicitamente prevista. Il mancato rispetto di un limite, di un segnale; di una pratica operativa o di un’istruzione di lavoro; una noncuranza nel far rispettare o rispettare una regola o una disposizione.

Se tutti dunque avessero amore al lavoro ben fatto, ne potrebbe venire nolto bene. Da una parte dunque è la carenza di virtù civili indispensabili ad ogni vivere organizzato e annoverabili tra quelle ‘cardinali', che provoca la situazione che abbiamo sotto gli occhi. Dall’altra c’è la mancanza di uno stimolo o un riferimento che ci aiuti a non “cadere dall’altra parte del cavallo”, cioè di un punto di riferimento assoluto.

Dio ci ha creato per lavorare (GENESI II, 15)
L’Eterno Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino d’Eden perché lo lavorasse e lo custodisse.
Dunque il lavoro non è una maledizione o una conseguenza del peccato originale – come anche qualche credente sarebbe indotto a pensare – ma è fatto per l’uomo e l’uomo è fatto per lavorare, come i pesci per nuotare e gli uccelli per volare. Va fatto dunque con amore, qualunque sia, al meglio delle proprie possibilità.
Certo vi è lavoro e lavoro, ma anche nei lavori più umili o meno redditizi o più faticosi, o più difficili o pericolosi si possono esercitare le virtù umane, e sopra tutto – quando si ha la fortuna di avere FEDE – il lavoro BEN FATTO si può sublimare dedicandolo al nostro Creatore. A cominciare da noi ne avranno vantaggio tutti.


APPENDICE:
Quali dunque i rimedi ai problemi dell’oggi? Servirebbe cercare di riportare in auge con l’educazione della gioventù le virtù laiche e civili?
Il dileggio dell'idea di autorità e dell’autorità stessa, l’idea sbagliata della democrazia,  la trascuratezza delle norme e delle leggi e la rilassatezza dei costumi, non sono forse queste le cause degli incidenti stradali, per esempio, o della PIAGA DELLE MORTI BIANCHE?

La carenza di virtù civili indispensabili ad ogni vivere organizzato e annoverabili tra quelle ‘cardinali', diviene oggi addirittura motivo di vanto. Le conseguenze? Perduta la Fede, rimane il vuoto di ideali, sostituito da surrogati, sfrenata ricerca del piacere, droga. Il rifiuto di certi doveri, mascherato da pretesti morali per lo più fasulli, se i prestestuosi sono vili o peggio violenti, in certi periodi è addirittura sfociato nel terrorismo. Oggi l'ateismo pratico, l'edonismo e la dissolutezza dei costumi trionfano. C'è un aumento esponenziale delle turpitudini conseguenti alla caduta di ogni limite nei diversi campi della vita e della scienza: omicidi, aborto, stravolgimento dell'etica nelle manipolazioni genetiche e nel concetto di famiglia. 

INVERTIRE LA ROTTA SI POTREBBE. COMINCIANDO LA PROPAGANDA E LE AZIONI PER RISTABILIRE I FONDAMENTI DELLA NOSTRA CIVILTÀ, LE VIRTÙ CARDINALI OGGI SBEFFEGGIATE, COMINCIANDO DAI GIOVANI

Servirebbe richiamarci alle nostre radici cristiane, e servirebbe agire di conseguenza?